Cronenberg e Artaud, il corpo come incubo e ribellione nella modernità

  • Postato il 22 aprile 2025
  • Di Panorama
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L’universo terrifico di David Cronenberg non l’ha inventato David Cronenberg. Esisteva prima di lui, e dopo di lui continuerà a esistere. Il fatto è che il regista canadese possiede una chiave per entrare in questa dimensione diversa e disturbante, ma altri prima di lui ne hanno varcato la soglia, e non tutti ne sono usciti indenni. Antonin Artaud (nato a Marsiglia nel 1896 e morto nel 1948 in una clinica a Ivry-sur-Seine, quando Cronenberg aveva appena cinque anni) si è portato addosso quel luogo angosciante per tutta la vita, ha cercato disperatamente di evitarlo ma ogni volta è stato ritrascinato nel buco nero. O forse – soluzione più semplice ma se possibile ancora più spaventosa – Cronenberg e Artaud fanno parte di quella razza di sacerdoti dell’arte capace di vedere il mondo così com’è: ciò che loro descrivono non è l’altrove ma il qui e ora. Siamo noi che ci illudiamo, non abbiamo superato le nostre barriere psichiche e ancora la nostra mente ci protegge avvolgendoci nell’artificio.

Artaud era baciato dal sole dell’Occidente al tramonto. Attorno a sé vedeva decadenza e rovine. Alla fine del 1947, poco prima che morisse, gli chiesero testi da registrare per la radio francese e lui se ne uscì con quel capolavoro feroce che sarebbe poi divenuto Per farla finita col giudizio di Dio. Manco a dirlo, l’opera fu censurata. Sin dall’inizio, era una radiocronaca della fine dei tempi: «Poiché gli americani sono sempre più convinti di non aver bambini e braccia a sufficienza» gridava Artaud, «non operai, ma soldati e vogliono con tutta la forza e con tutti i mezzi a disposizione fare e fabbricare soldati in previsione di tutte le guerre planetarie che in futuro potrebbero scoppiare, e che sarebbero destinate a dimostrare attraverso le schiaccianti virtù della forza la sovra eccellenza dei prodotti americani, e dei frutti del sudore americano in tutti i campi dell’attività e del possibile dinamismo della forza».

Ecco che forza muove il mondo moderno: l’imperativo della produzione. La società del controllo – intuita con decenni di anticipo e con un filo di paranoia – è una gigantesca macchina da guerra: «Perché bisogna produrre, bisogna con tutti i mezzi possibili sostituire la natura ovunque possa essere sostituita, si deve trovare all’inerzia umana un campo più vasto, bisogna che l’operaio abbia di che cosa occuparsi, che siano creati nuovi campi d’attività, questo diventerà il regno di tutti i falsi prodotti fabbricati, di tutti gli ignobili surrogati sintetici, con cui nulla ha a che fare la natura bella e vera, e deve cedere vergognosamente il posto una volta per tutte ai trionfali sostituti sintetici, dove lo sperma delle fabbriche per la fecondazione artificiale farà miracoli per produrre eserciti e corazzate. Niente più frutti, né alberi, né legumi, né piante officinali o non, e di conseguenza niente più alimenti, ma prodotti di sintesi in abbondanza, nei vapori, negli umori insoliti dell’atmosfera, su particolari assi delle atmosfere strappate con la forza e la sintesi alle resistenze di una natura che della guerra non ha conosciuto altro che la paura».

Fu scambiato per un delirio, ma altro non era che il racconto preveggente della nostra attualità. Artaud deprecava la modernità meccanica, la peste che intacca lo spirito e separa irreparabilmente dalla natura. Sognava una rivoluzione, ma che fosse prima di tutto «rivoluzione della cultura». Le sue visite nei sanatori e nelle cliniche psichiatriche erano cominciate a metà degli anni Dieci. Con l’alba del nuovo decennio aveva cercato una via per liberarsi dal mostro moderno che l’opprimeva, e pensava di averla trovata nel surrealismo, nell’arte che disintegrava la razionalità e liberava gli istinti, l’anima, le potenze magiche ancestrali. Ma non bastò. Nel 1935 – come altri prima di lui, a partire da D.H. Lawrence – si recò, con la dipendenza dalle droghe fra i bagagli, nel Messico infuocato, sperando di scorgervi un soffio di vita, una civiltà non ancora distrutta dal razionalismo. Fu ancora deluso.

Si convinse che il controllo esercitato sugli individui fosse ancora più antico, che iniziasse dalla creazione. L’uomo è gettato nel mondo senza averlo chiesto, e subito subordinato, inserito in un ordine che lo imprigiona e che può consegnarlo alla follia. Antonin stabilì un sodalizio dell’anima con Vincent Van Gogh (che elesse a suo precursore e suo doppio ne Il suicidato della società, ora di nuovo in libreria per Luni editore), e si scelse un nemico: Dio. Cominciò a pensare che liberarsi definitivamente volesse dire prendere le distanze dalla creazione, farsi creatori di sé stessi, rifiutare l’organismo prestabilito in cui si viene collocati non appena si entra nel mondo.

«L’uomo è malato perché è mal costruito» inveiva Antonin. «Bisogna decidersi a metterlo a nudo per grattargli via questa piattola che lo rode mortalmente, dio, e con dio i suoi organi. Legatemi pure se volete, ma non c’è nulla di più inutile di un organo. Quando gli avrete fatto un corpo senza organi, l’avrete liberato da tutti gli automatismi e restituito alla sua vera libertà».

Ma che cosa è questo corpo senza organi? A spiegarlo si impegnarono Gilles Deleuze e Felix Guattari in Mille piani: «I suoi nemici non sono gli organi», scrissero i due filosofi. «Il nemico è l’organismo. Il Corpo senza organi non si oppone agli organi, ma a questa organizzazione degli organi che si chiama organismo. È vero che Artaud conduce la sua lotta contro gli organi, ma nello stesso tempo ce l’ha con l’organismo, se la prende con l’organismo: Il corpo è il corpo. E non ha bisogno di organi. Il corpo non è mai un organismo. Gli organismi sono i nemici del corpo». Passaggio oscuro, come no, ma in fondo non difficile da comprendere: il problema, per Artaud, è l’organismo come sistema di controllo. 

Bisogna sfuggire alla logica che ci viene imposta dalla creazione, ogni uomo deve crearsi da solo, rifiutare «l’organizzazione organica degli organi», ovvero «il giudizio di Dio, il sistema del giudizio di Dio, il sistema teologico».

È qui che interviene, da un’altra epoca, David Cronenberg. A lungo la sua opera di cineasta (che culmina ora nel film The Shrouds) è stata presentata in maniera riduzionistica come body horror, orrore basato sul corpo. In realtà era una profonda meditazione sulla modernità, e certo sul ruolo che il corpo in essa ricopre. Il film di Cronenberg sono Artaud al cinema, mettono in scena il tentativo degli esseri umani di crearsi da soli, di intervenire sui propri organi, di sovvertire l’ordine del creato. 

Tutt’attorno vi è il mondo ostile del controllo, la sorveglianza pervasiva che viene esercitata ad esempio attraverso gli schermi (come nel monumentale Videodrome, potentissima critica alla società dei media e della digitalizzazione). I personaggi di Cronenberg le provano tutte: si fanno infettare da agenti biologici e tecnologici, tentano di migliorarsi con la tecnica e la meccanica. Ma non finisce mai bene. Quasi sempre l’ibridazione finisce nell’incubo, l’agente esterno inoculato diviene un «demone sotto la pelle» o ancora l’arroganza dell’uomo nel superare sé stesso sfocia in una creazione caricaturale e orribile, come ne La mosca. L’uomo che tenta di sfuggire a sé stesso per sfuggire al controllo si perverte, diviene meno umano.

Il Corpo senz’organi di Artaud è al centro del penultimo film di Cronenberg, Crimes of the future, in cui si immagina un mondo senza dolore, in cui alcuni esseri umani generano nuovi organi che poi si fanno espiantare senza soffrire. Dovrebbe essere la liberazione definitiva: finalmente in grado di farci da soli, di creare noi stessi. Ma le nuove escrescenze sono come tumori, e coloro che le producono non possono comunque sfuggire alle passioni umane, non è la loro capacità produttiva a liberarli dall’oppressione. Nel nuovo The Shrouds Cronenberg mette addirittura in scena il tentativo di superare la morte, di ibridare vivi e defunti. Ecco che un imprenditore -Vincent Cassel – inventa il «cimitero in diretta», dove i parenti possono vedere il disfacimento dei corpi dei propri congiunti. Ma anche in questo caso il tentativo è vano.

Ci si può anche liberare non solo del giudizio di Dio, come voleva Artaud, ma perfino di Dio stesso. Si può provare a rifiutare il ruolo di creature per farsi creatori. Ma ogni volta ripiombiamo nella società che ci porta al suicidio, ogni volta dobbiamo fare i conti con il nostro dolore. L’universo terrifico che hanno visto Artaud e Cronenberg non è altrove, è qui: ma scappare non serve. Tocca affrontarlo e – piaccia o no – conviene avere Dio dalla propria parte.

Autore
Panorama

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