Crisi umanitaria in Congo, ricchi di coltan e poverissimi, stragi Isis di cristiani e neri

  • Postato il 14 settembre 2025
  • Politica
  • Di Blitz
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Una delle più grandi crisi umanitarie al mondo si sta attualmente verificando nella Repubblica Democratica del Congo. Il conflitto tra milizie armate, gruppi ribelli e forze armate governative nella parte orientale del paese, ricca di minerali, ha causato lo sfollamento di fino a sette milioni di persone.

Alle tipiche cause di conflitto si aggiunge l’odio religioso dei musulmani contro i cristiani che costituiscono la grande parte delle vittime.

Forse perché i morti sono cristian, forse perché sono neri il resto del mondo assiste allo scempio di vite umane con indifferenza.

Il Congo è fra le terre più ricche al mondo di minerali preziosi e proprio per questo è stato sempre al centro della cupidigia internazionale, fin dai tempi del colonialismo.

L’elenco dei minerali include il coltan (un minerale contenente tantalio e niobio fondamentale per i nostri Smart phone), i diamanti, il cobalto, il rame, l’oro, lo stagno, il tungsteno, l’uranio. Le miniere sono concentrate maggiormente nella regione del Katanga.

Non a caso la  regione del Katanga è stata spesso fonte di violente spinte secessioniste.

Durante la crisi del Congo, tra il giugno 1960 e il gennaio 1963, è stata de facto indipendente con il nome di Stato del Katanga. Dag Hammarskjöld, segretario generale delle Nazioni Unite, morì in un misterioso incidente aereo in Zambia il 18 settembre 1961, mentre si recava in Katanga per discutere dell’autonomia della regione. Nel 1967 il nord della regione fu teatro della rivolta dei mercenari europei.

Quando Trump ha annunciato di recente un quadro per un accordo di pace tra il Ruanda e la Repubblica Democratica del Congo, ha dichiarato: “Stiamo ottenendo, per gli Stati Uniti… molti diritti minerari”.

La strage di Kindu in Congo, nella memoria italiana

Crisi umanitaria in Congo, ricchi di coltan e poverissimi, stragi Isis di cristiani e neri, nella foto il monumento a Fiumicino dedicato ai morti italiani a Kindu
Crisi umanitaria in Congo, ricchi di coltan e poverissimi, stragi Isis di cristiani e neri – Blitzquotidiano.it (nella foto il monumento a Fiumicino dedicato ai morti italiani a Kindu)

A dare un suono sinistro al Congo era gli italiani con un po’ di memoria è l’eccidio di Kindu nel 1961, quando 13 aviatori italiani furono trucidati durante una missione di pace per l’ONU.

Ma le ultime notizie non fanno sperare bene. Su La Nuova Bussola quotidiana Anna Bono riferisce della più recente strage di cristiani compiuta dalle Forze democratiche alleate (ADF), i jihadisti attivi nella Repubblica Democratica del Congo e in Uganda.

La sera dell’8 settembre, scrive Anna Bono, intorno alle 21, hanno attaccato Nyoto, un villaggio della provincia orientale del Nord Kivu, in Congo. Erano una quarantina – raccontano i sopravvissuti – armati di machete e di armi da fuoco. Hanno bruciato delle automobili e diverse abitazioni, chi dice 15 chi 30. Poi hanno fatto irruzione in una casa nella quale numerosi cristiani si erano riuniti per partecipare a una veglia funebre e ne hanno fatto strage.

Le forze dell’ordine allertate sono arrivate, come succede quasi sempre, quando ormai i jihadisti si erano dileguati. Dai primi riscontri sono risultati 61 morti, poi 72 e il bilancio finale potrebbe essere ancora più alto. Tra le vittime ci sono donne e bambini, intere famiglie sono state sterminate. Le condizioni dei corpi finora rinvenuti indicano che la maggior parte delle vittime sono state uccise a colpi di machete.

Le Adf nel 2016 hanno giurato fedeltà all’Isis, lo Stato Islamico, e dal 2019 fanno parte dell’Iscap, la Provincia dell’Africa centrale dello Stato Islamico, insieme ad Ansar al-Sunna che opera dal 2017 nel nord del Mozambico. Come sua consuetudine, l’Isis ha rivendicato la strage vantandosi di aver ucciso quasi 100 cristiani.

Va notato che jihadisti ricavano enormi introiti dai territori sui quali riescono a imporre il controllo: nel caso del Nord Kivu e delle altre province orientali del Congo, le loro immense risorse minerarie.

La base in Congo delle milizie islamiche

Le Adf si erano formate tra il 1995 e il 1996 in Uganda, sotto la guida di un leader islamista, Jamil Mukulu, per combattere contro il governo. Da oltre 20 anni però hanno trasferito le loro basi nell’est del Congo ed è lì che compiono la maggior parte delle loro azioni, e quelle più devastanti: attentati, attacchi a chiese e strutture religiose, razzie. Quello dell’8 settembre, a Nyoto, è uno dei loro attacchi più gravi. Segue di poche settimane quello alla chiesa cattolica di Komanda, nella vicina provincia di Ituri, nella notte tra il 26 e il 27 luglio. Nella chiesa c’erano molti fedeli convenuti per una veglia notturna di preghiera. Alcuni si stavano preparando a ricevere la cresima di lì a poche ore. Decine di persone, almeno 43 inclusi nove bambini, sono state uccise a colpi di arma da fuoco e di machete all’interno della chiesa e nei pressi. Altre sono morte nell’incendio delle case e dei negozi ai quali i terroristi, dopo averli saccheggiati, hanno dato fuoco prima di andarsene.

È stato in un’altra chiesa, quella protestante di Kasanga di nuovo nel Nord Kivu, che a febbraio le Adf hanno compiuto un’altra strage. Vi hanno rinchiuso per diversi giorni, legati, 70 abitanti di un villaggio e poi li hanno uccisi a martellate e a colpi di machete. Il 14 febbraio le forze dell’ordine ne hanno rinvenuto i corpi straziati.

Chi sopravvive agli attacchi, se solo può, scappa, cerca rifugio nei centri urbani maggiori e nei campi profughi allestiti nella regione dove spera di essere al sicuro. Soprattutto a partire dallo scorso anno, il flusso degli sfollati è aumentato con l’intensificarsi degli attacchi. L’Isis insieme all’attentato dell’8 settembre ne ha rivendicati altri cinque recenti, contro dei civili cristiani e contro basi militari congolesi e ugandesi. Uno di questi, il giorno successivo, è stato messo a segno nei pressi di Beni, sempre nel Nord Kivu, una città di oltre 200mila abitanti, dove altri 18 cristiani sono stati uccisi.

Il governo congolese ha dichiarato in un comunicato diffuso nei giorni successivi di aver fornito al governo del Nord Kivu tutto il supporto necessario nella gestione delle conseguenze di carattere umanitario derivanti dagli attacchi terroristici.

Ma i fatti invece dimostrano l’inefficacia delle misure adottate.

Altre brutte notizie aggiunge Sara Costantini su Vatican News.

Secondo la Missione delle Nazioni Unite nella Repubblica Democratica del Congo (Monusco) tra il 9 e il 16 agosto almeno 52 civili sono stati uccisi in attacchi delle Forze Democratiche Alleate (Adf), uno dei numerosi gruppi armati attivi nel Paese, nei territori di Beni e Lubero, nella provincia orientale del Nord Kivu. Tra le vittime ci sono otto donne e due bambini.

La Monusco ha segnalato che il bilancio delle vittime “potrebbe aumentare” e ha denunciato come gli attacchi siano stati accompagnati da rapimenti, incendi di abitazioni, veicoli e motociclette, nonché da saccheggi e distruzioni di proprietà di famiglie, già in condizioni umanitarie precarie.

Continuano gli attacchi delle Adf

Gli episodi più gravi si sono verificati nella città di Oicha, situata nella provincia del Nord Kivu, nella parte orientale della Repubblica Democratica del Congodove in una notte sono stati uccisi almeno nove civili. Un attacco che si è verificato pochi giorni dopo il massacro di 40 persone avvenuto a Bapere, sempre nel Nord Kivu.

Questi nuovi massacri, aggiunge Sara Costantini, seguono quello avvenuto a fine luglio nella vicina provincia dell’Ituri, quando 40 persone sono state uccise all’interno di una chiesa. Le Adf, hanno ucciso migliaia di civili negli ultimi anni nel nord-est del Paese.

Il fallimento dei negoziati a Doha

Parallelamente, sul fronte politico-diplomatico, si è registrato un nuovo fallimento nel processo di pace con l’M23. Il 18 agosto scadeva la data fissata a Doha, in Qatar, per raggiungere un accordo di pace tra il governo congolese e il movimento ribelle, ma la scadenza non è stata rispettata. I rappresentanti dell’M23 non si sono presentati al tavolo, accusando le autorità di Kinshasa di non aver rispettato i termini del cessate il fuoco e chiedendo come condizione preliminare il rilascio dei prigionieri.

La mediazione del Qatar aveva preso avvio il 19 luglio, quando le due parti avevano firmato una dichiarazione di principi impegnandosi ad avviare i negoziati entro l’8 agosto ea raggiungere un accordo entro il 18.

L’instabilità del paese risale a decenni fa, forse al momento cruciale del gennaio 1961, quando il primo ministro del paese, Patrice Lumumba, fu assassinato. In un saggio del 2014, il politologo Stephen Weissman su Foreign Affairs ha esplorato il ruolo svolto dalla CIA nel suo omicidio e come l’intervento americano in Congo abbia indirizzato il paese su una rotta da cui non si è ancora ripreso.

La decisione di Washington di inviare la CIA in Congo nel 1960 fu alimentata dalle ansie e dalla paranoia della Guerra Fredda. Lumumba, un carismatico nazionalista il cui governo fu il primo ad essere eletto democraticamente da quando il paese ottenne l’indipendenza dal Belgio, il 30 giugno 1960, si era rivolto all’Unione Sovietica per chiedere aiuto in seguito alla rioccupazione militare belga e alla secessione della provincia più ricca del Congo, il Katanga.

Temendo l’ascesa del comunismo e l’influenza di Mosca sul continente, Washington condusse un’operazione segreta per sostituire Lumumba, un’impresa che per decenni fu descritta come “un successo chirurgico e a basso costo”.

Ma nel 2014, nuove prove erano emerse e, come scrisse Weissman, “dipingono un quadro molto più fosco di quanto persino i critici immaginassero”. Sebbene la minaccia del comunismo in Congo fosse piuttosto debole sotto Lumumba, che era “molto più interessato al non allineamento”, la CIA “si impegnò in una pervasiva ingerenza politica e in azioni paramilitari tra il 1960 e il 1968 per garantire che il paese mantenesse un governo filo-occidentale e per aiutare il suo patetico esercito sul campo di battaglia”.

Gli sforzi dell’agenzia furono estesi e maligni, scrisse Weissman, tanto che il capo della stazione della CIA ebbe “un’influenza diretta” sugli eventi che portarono all’omicidio di Lumumba, nel gennaio del 1961.

A quel punto, con l’aiuto di Washington, era stato soppiantato da Joseph Mobutu, il capo filo-occidentale dell’esercito congolese, che “sarebbe diventato uno dei leader più duraturi e venali dell’Africa”. “Aggrapparsi a un dittatore amico di lunga data, anche quando i suoi difetti diventano più rischiosi per gli interessi degli Stati Uniti, è una ben nota patologia della politica estera statunitense”, scrisse Weissman.

Nel caso del Congo, l’eredità di interventi della CIA alimentò “una spirale di declino di lunga durata, caratterizzata da corruzione, disordini politici e dipendenza dall’intervento militare occidentale”. Invece di porre fine alla lotta per il controllo del Congo, Washington la infiammò, “lasciandosi alle spalle un’instabilità che continua ancora oggi”.

 

 

 

 

 

 

 

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