'Crematorio freddo', un cronista all'inferno di Auschwitz
- Postato il 14 gennaio 2025
- Di Agi.it
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'Crematorio freddo', un cronista all'inferno di Auschwitz
AGI - Benvenuti all'inferno. All'inferno di Auschwitz, di Birkenau, di Furstenstein, di Dornhau. A 80 anni dalla liberazione del campo di sterminio più tristemente noto arriva in Italia, dopo essere uscito in 15 Paesi ed essere diventato un best seller internazionale (è stato inserito dal New York Times tra i dieci migliori libri del 2024) 'Crematorio freddo' di Joseph Debreczeni. Pubblicato per la prima volta nel 1950 in ungherese, è stato il primo testo sull'Olocausto a emergere dall'Est europeo, ma venne rapidamente dimenticato a causa di ragioni politiche e censura. In Italia arriva in libreria il 15 gennaio per Bompiani tradotto da Dora Varnai (collana Overlook, pagg. 252 - prezzo 18 euro) col sottotitolo 'Cronache dalla terra di Auschwitz'. Ed è un pugno nello stomaco, qualcosa che ci eravamo dimenticati di poter provare.
Dai tempi di 'Se questo è un uomo' non è stato scritto un libro cosi' potente di denuncia della più tragica, folle e ampia pagina nera dell'uomo moderno. Se Levi colpiva raccontando e portando il lettore all'interno dell'inferno di Auschwitz, Jozsef Debreczeni - pseudonimo di Jozsef Bruner, giornalista e scrittore ungherese nato a Budapest nel 1905 e scomparso a Belgrado nel 1978 - fa fare al lettore un dolorosissimo e incredibile viaggio in diversi gironi infernali dei campi di concentramento della Bassa Slesia in Polonia. Non solo Auschwitz, dove arrivò nel maggio 1944, ma anche Furstestein fino ad arrivare al lager-ospedale di Dornhau. Ed è questo il luogo di morte che dà il titolo al libro, 'crematorio freddo', dove arrivavano i detenuti malati che i nazisti non gasavano e che venivano buttati nella calce dopo essere morti di stenti, malattia e fame. E dove Debreczeni diventa "uno dei tanti scheletri umani nudi e urlanti".
Quello raccontato nel libro è un viaggio degradante verso gli abissi dell'umanità in cui il sistematico annientamento fisico e mentale dei prigionieri è narrato con un linguaggio semplice e crudo, da cronista qual era l'autore. Il lettore vive insieme al protagonista la discesa all'inferno, attraverso i lavori forzati che minano la salute e spengono la volonta'. La mancanza di cibo, le condizioni igieniche quasi incompatibili con la vita, la lotta quotidiana per un pezzo di pane o per un po' di grasso nella brodaglia spacciata per minestra, la violenza dei detenuti messi a capo dei reparti o delle camerate. Debreczeni come aveva fatto in maniera forse meno dettagliata Primo Levi, racconta la gerarchia dei lager. Tutti sono detenuti, ma alcuni sono privilegiati e vengono scelti dai nazisti a rappresentare l'aristocrazia del lager, "gli dei miserabili di questo miserabile mondo", scrive Debreczeni: "all'esterno, dei deportati come tutti gli altri, ma solo all'esterno".
Sono i Kapos (di campo, aziendale, col bastone, sbucciatore di patate) che comandano sui detenuti (Haftling); sopra ai Kapos c'è l'elite del campo: i Blockaltese e ancora sopra il Lageralteste e lo scritturale del campo.L'esperienza di Debreczeni, diventato come tutti nel lager solo un numero, il 3303, dura un anno, da maggio 1944 con l'arrivo ad Auschwitz a maggio 1945 con la liberazione dei russi del lager-ospedale di Dornhau. Dall'arrivo sui treni blindati alla prima selezione per chi viene avviato alle camere a gas e chi all'infreno del lager, dalla lotta per sopravvivere cercando di ottenere più cibo possibile (con "cibo" s'intende pane, grasso, margarina o qualsiasi cosa vagamente commestibile) alla vita quotidiana fatta di lavori forzati in condizioni estreme, angherie dei Kapos e blockalteste fino alla massima degradazione di trovarsi ridotti a larve umane, arrivare a pesare poco più di 30 chili, su letti di trucioli sporchi di escrementi di compagni morti, con pidocchi e larve addosso e sulle misere coperte (se ci sono).
Il racconto di Debreczeni è una cronaca puntuale, lucida, dolorosissima di una tragedia immane, in cui come avveniva in Primo Levi l'accusa ai carnefici è nella cronaca stessa e 'Crematorio freddo', se possibile ancora più di 'Se questo è un uomo', fa emergere quell'orrore rendendo difficile la lettura per le immagini e la potenza dell'infernale narrazione. Quando in Italia uscì il libro di Primo Levi, pubblicato nel 1947 in poche migliaia di copie per una piccola casa editrice, fu accolto con un certo disinteresse. Troppo vicina la tragedia della Seconda guerra mondiale e troppo dolorose le ferite che tutti si portavano addosso, non solo gli ebrei massacrati dall'Olocausto. Ci vollero dieci anni perché tornasse in libreria e diventasse un caso letterario mondiale in Occidente. Analoga accoglienza l'ha avuta 'Crematorio freddo' quando fu pubblicato per la prima volta nel 1950 in ungherese. A differenza di 'Se questo è un uomo', pero', ci sono voluti 74 anni perché ricevesse il giusto riconoscimento come testimonianza-atto d'accusa unica, terribile e feroce della folle tragedia dell'Olocausto e della barbarie nazifascista. Ora questo testo è stato ripubblicato grazie al nipote Alexander Bruner in quindici lingue, riscuotendo un notevole successo e un'ampia riconoscenza critica. "Ci sono milioni di storie che non verranno mai raccontate - scrive nella postfazione il nipote dell'autore - ma per questa posso fare la differenza" riportando cosi' alla luce "questo capolavoro 'perduto' e renderlo disponibile per i lettori di domani". Anche se sono i lettori di oggi ad averne urgente bisogno.
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