“Credevo fosse un film sperimentale ma fece miliardi”: La Scuola compie 30 anni (e si celebra a Pesaro)

  • Postato il 14 giugno 2025
  • Cinema
  • Di Il Fatto Quotidiano
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Macché nove miliardi di lire, La scuola ne incassò 14 … o mi sbaglio?”. Comunque andò nel 1995, il quinto lungometraggio di Daniele Luchetti, allora stella nascente del cinema italiano, fu un grosso, enorme, successo di pubblico. Con tanto di tre settimane al primo posto del box office. Al Pesaro Film Festival 2025 sabato 14 giugno alle 21.30 in Piazza del Popolo La scuola torna in tutto il suo caustico splendore. L’anno scorso a Pesaro toccò il compleanno di Non ti muovere diretto nel 2004 da Sergio Castellitto, altro incasso elevato da 8 milioni e mezzo di euro. Insomma prima di Checco Zalone il cinema italiano godeva di ottima salute. Tratto da tre libri di Domenico Starnone (Ex cathedra, Fuori registro, Sottobanco) e preceduto dall’omonima opera teatrale, La scuola fu sceneggiato da Luchetti assieme allo storico duo Rulli e Petraglia e allo stesso Starnone, La Scuola è, come scrisse Mereghetti nel suo dizionario, “una commedia grottesca sui rituali del mondo scolastico osservato non attraverso gli studenti bensì attraverso i docenti chiusi nella loro ripetitività di gesti, tempi e spazi burocratici”. Al centro della scena, tra gli altri, l’idealista professor Vivaldi (Silvio Orlando), la radiosa prof Majello (Anna Galiena) e il cattivissimo vice preside Sperone (Fabrizio Bentivoglio). “Girammo all’estrema periferia orientale di Roma, presso l’istituto tecnico per il turismo Livia Bottardi, la stessa scuola in cui Starnone era ancora docente”, spiega a FQMagazine, l’oggi 64enne Luchetti. “Era fine estate e le lezioni erano appena ricominciate. Quando avevo voglia di scappare dal set mi infilavo in qualche classe per verificare di non stare esagerando nella descrizione dei tipi umani del film”.

Gli insegnanti erano interpretati da attori famosi dell’epoca, ma per i ragazzi ci fu un casting dal realismo spinto…
“Presi dei veri quindicenni e non i soliti diciotto o ventenni che sembrano giovani. Quando fai un film con dei minorenni, la prima cosa che ti dicono è: mi raccomando prendi maggiorenni che sembrano piccoli. Io volli invece dei veri quindicenni, proprio per avere un’energia diversa. Credo si percepisca nel film. Li pescammo in una spiaggia di Ostia. Non sapevano niente della mitologia che c’era attorno al cinema”.

Sul manipolo sudato e feroce di docenti c’è uno sguardo bello tagliente…
“Erano professori perennemente in difficoltà, fuori orario, fuori sincrono rispetto ai programmi ministeriali e alla vita stessa. Uno alla Sperone lo abbiamo incontrato tutti a scuola. Comunque mi sono rifatto agli stessi professori di Amarcord di Fellini.

Ti aspettavi una così grande popolarità da questo film?
“No di certo, tanto che il produttore Vittorio Cecchi Gori conservava una mia lettera in ufficio incorniciata dove avevo scritto “questo film non farà una lira, fatelo uscire in una sala piccolina, speriamo nel passaparola”. Lui non mi diede retta e lo fece uscire subito in grandi sale. In pochi giorni macinò grandi incassi alti subito. Pensa che io avevo la sensazione che fosse un piccolo film sperimentale”.

Nel tempo La scuola è diventata una sorta di matrice di un lungo quasi identico filone: da Auguri professore, sempre con Orlando, a La sala professori e Guida pratica per insegnanti…
È successo anche con altri miei film. Dopo La nostra vita (2015), hanno prodotto molto cinema sulla periferia romana; con Il Portaborse (1992) ho dato il via nel ricominciare a fare cinema politico. Tutto sommato sono stati recuperi inconsapevoli della tradizione della commedia all’italiana, del parlare di grandi problemi sociali con la risata, la leggerezza, anche se in maniera caustica. Alle spalle di La Scuola c’era una lunga tradizione di cinema sulla scuola come ad esempio il cinema popolare e di successo su Pierino con Alvaro Vitali”.

Non c’erano ancora le “formule” precostituite modello Netflix?
“Quando uno fa un certo tipo di cinema è giusto stare bene nel genere. Ha senso fare una commedia che non fa ridere? No. Un giallo in cui non si trova la soluzione? No. Un film politico dove non si prende una posizione? No. Fare un film di relazioni senza andare nel profondo? No. Quando si sta dentro un genere il pubblico si orienta e tu sei più libero di esprimere la tua creatività. Siamo stati dentro un genere facendo divertire, senza rinunciare allo sguardo acido verso la società e pietoso verso i personaggi. Funzionò”.

Anche l’Orlando mood, la figura del prof di italiano idealista, sfigato con le donne si è ripetuta all’infinito…
“Fu il desiderio di andare contro un cliché: quello della persona di sinistra che pensa cose giuste e ha sempre ragione. Il nostro protagonista prende una posizione etica però le sbaglia tutte: è un rovesciamento che non tiene presente l’idealizzazione delle persone ma la loro visione con simpatia e pietà”.

La scuola fu il primo apice di successo della tua carriera, tre anni dopo ci fu il flop di I Piccoli Maestri e dopo scomparisti quasi per dieci anni…
Ebbi, in nemmeno sei anni, comunque pochi, tra Domani accadrà e La scuola, solo successi commerciali e critici, come tante presenze al Festival di Cannes. Posso dirlo oggi, perché all’epoca non lo sapevo, ma con Piccoli Maestri ho avuto l’ambizione di fare il grande colpo e lì è scattata la hybris. Oggi, ad esempio, i Piccoli Maestri non so come sia; mentre La scuola sì. Il fatto di essere fischiato al Festival di Venezia per me è stato come un capovolgimento radicale. Siccome all’epoca facevo tanta pubblicità, vivevo di quello, decisi di dire basta, perché mi ero scocciato. Nacque mio figlio, potevo e volevo godermelo di più. Quando nel 2006 mi chiamò Cattleya e mi propose Mio fratello è figlio unico, pensai che fosse il mio ultimo film, perché avevo esaurito le mie potenzialità. E invece no, ricominciai da capo come se non mi fossi mai interrotto. Mio fratello è figlio unico lo vedo come un film maturo e solido. La scuola è carica invece di un’energia giovanile e selvaggia”.

C’è anche una terza e ulteriore fase della tua carriera: quella che va dal 2018 con Io sono tempesta , passa da Raffa e Momenti di trascurabile felicità e arriva a Confidenza…
“Potrebbe trattarsi della fase senile o, come diceva Ennio Flaiano, dopo la giovane promessa e il solito stronzo è arrivata la fase del venerabile maestro. Preferirei essere comunque ancora in quella del solito stronzo”.

Ci siamo dimenticati di parlare della coraggiosa scelta di farti produrre, con La scuola, da Vittorio Cecchi Gori, mosca bianca antisistema, mai amato dal milieu che conta dell’industria del cinema italiano…
È vero, eravamo guardati con sospetto e snobismo dagli altri autori. Eravamo io, Gianni Amelio e Carlo Mazzacurati a farci produrre da lui. Io avevo un buon rapporto con Rita Rusic, all’epoca Cecchi Gori: lei aveva molto fiuto, era intelligente, ha creduto molto in La scuola e mi h anche lasciato molta libertà nel fare Piccoli maestri come volevo io. Con Cecchi Gori un giorno avevi un’idea, il giorno dopo quell’idea era in preparazione”.

Hai parlato di snobismo negli ambienti produttivi: il cinema italiano è solo di sinistra?
In questi ultimi dieci anni saranno stati prodotti duemila film. Ecco vorrei che mi si facesse l’elenco di quelli ideologicamente schierati o militanti. Non ce n’è neanche uno. Dico schierati nei termini che avevano i film fino al Portaborse: una posizione politica chiara che disturba il potere. Il cinema usato come un manganello non viene più fatto da 40 anni perché manca il pubblico. Le persone oggi si schierano su Facebook e non pagando un biglietto del cinema. E noi registi lo percepiamo. Fare un film ideologico è più difficile di un tempo quando era chiaro chi fossero i buoni e chi i cattivi. Oggi è molto chiaro chi sono i cattivi, ma è molto meno chiaro chi sono i buoni. Questa difficoltà a schierarsi come cittadini si riflette in un cinema assente”.

Ti sei schierato con Avati e Tornatore per la creazione di un’agenzia del cinema autonoma e specifica, slegata dal Ministero della Cultura…
“Meglio avere una minima autonomia finanziaria e gestionale che rimanere intruppati nel Mibact. Quest’ultimo contiene i beni culturali, l’opera lirica e tanti settori lontani dai bisogni che ha il cinema. Intendo il pubblico del cinema. Perché non è solo il diritto dell’autore ad esprimersi, c’è anche il diritto del pubblico ad avere una cinematografia nazionale diversa, contraddittoria, variegata e sarebbe meglio schierata in più modi possibili”.

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Il Fatto Quotidiano

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