Costretta a prostituirsi con i terribili riti “voodoo”. Ma trova il coraggio

  • Postato il 26 aprile 2025
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Costretta a prostituirsi con i terribili riti “voodoo”. Ma trova il coraggio

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Una storia di sfruttamento, riti voodoo e di mafia, quella nigeriana, che passa anche dalla Calabria: dopo anni di sfruttamento e violenze, la ragazza nigeriana costretta a prostituirsi si è ribellata e ha parlato. L’inchiesta su traffico di esseri umani e stupri, a Reggio il capolinea per Friday Obazelu


Tutti lo chiamano Friday, Venerdì. In epigrafe di sentenza è Favour Obazelu. Quarantacinque anni, è un boss della mafia nigeriana, il cui potere, cementato nell’omertà imposta da una feroce violenza e dalle asfissianti superstizioni alimentate da macabri riti esoterici, oggi vacilla tra le sbarre delle carceri italiane.
Se la sentenza emessa dalla Corte d’Assise d’Appello di Reggio Calabria verrà confermata nei successivi gradi di giudizio, dentro resterà diciannove anni: colpevole traffico di esseri umani, stupro, riduzione in schiavitù.
Il suo ruolo, al vertice di uno dei clan nigeriani più radicati in Italia, invece era stato già riconosciuto dai giudici di Bari in un altro processo. A inchiodarlo, all’epilogo di un atroce supplizio, è stato il racconto di una delle sue vittime, una donna poco più che trentenne che nell’anima e nella carne porta ferite inguaribili. Emblematica, la sua storia, dell’orrore della tratta.

IL RITO VOODOO

«Prima la mia famiglia non c’è niente; noi siamo poveri, per quello io viene qua senza la mia famiglia…», rispose al pm Sara Amerio quando, chiamata a deporre in aula, ripercorse per la prima volta il suo calvario davanti all’immagine del suo carnefice, in videocollegamento dal penitenziario di Lecce. Le offrirono un lavoro in Italia, in un bar, e fu organizzato il viaggio. Prima della partenza, però, fu condotta da una sorta di sacerdote, che descrisse come «il padrone del voodoo», in un luogo «tipo la chiesa». L’officiante del rito chiamato «juju», affiancato da altri due uomini, le avrebbe riferito queste parole: «Se tu non mi pagare questi soldi, tu devi morire…». La indusse ad inginocchiarsi e a mettere le mani sul fuoco. Dovette bere una cola alcolica e ingoiare il cuore di una gallina appena uccisa. Le schiacciarono la testa sul pavimento e le procurarono un taglio sulla fronte, affinché sanguinasse. E dovette giurare di pagare 25.000 euro, ovvero il prezzo per il viaggio ed il lavoro in Italia.

GLI STUPRI IN LIBIA

L’odissea verso il Belpaese iniziò salendo su un bus che la condusse, assieme ad altre due vittime della tratta e altri uomini, in Libia, tra Tripoli e Sabha, dove rimasero per circa quattro mesi. Qui la discesa negli inferi fu senza ritorno. La testimone racconta di un «grande campo», dove c’era una «connection house», sorvegliata da uomini arabi armati di pistola. «Loro ti picchiare con la mano o con qualsiasi cosa. Trova anche quello tubo per prendere l’acqua», disse in aula al pubblico ministero. E ancora: «Loro ti prende la pistola e metti nella tua testa, così, o alla pancia, se non fai qualcosa che loro vogliono, così, ti uccidono». La stuprarono. Era buio e non riuscì neppure a comprendere in quanti fossero. E mentre abusavano di lei, la picchiarono ripetutamente con dei bastoni e con un tubo in gomma. Rimase così prigioniera, violentata e torturata, in quel campo sorvegliato da nigeriani in uniforme, fino alla partenza per l’Italia.

LA TRAVERSATA E LA SALVEZZA

Il viaggio avvenne via mare, su un barcone che, dopo cinque giorni di navigazione senza acqua né cibo, stava per affondare. Soccorse in mare, la giovane e le altre ragazze, approdarono a Reggio Calabria, dove furono rifocillate e curate. Durante l’identificazione, seguendo le istruzioni di Friday, fornì false generalità e, a quel punto, divenne di fatto un fantasma. Condotta in un centro di accoglienza, Friday la mandò a prendere affinché giungesse a Bari. Il boss della malavita nigeriana le diede maglie scollate, gonne corte, scarpe coi tacchi e fece in modo che fossero ben sistemati anche i capelli con delle extension. Il lavoro che l’aspettava, però, non era al bar, ma in strada, a prostituirsi.

Non poteva ribellarsi, tale era il terrore di morire in ragione del rito voodoo al quale era stata sottoposta. La testimone temeva non solo per sé, ma soprattutto per i suoi familiari. «Quanto ti pagavano?», chiese al dibattimento il pm Amerio. «Dipende: pagare 20, 15, 50. Dipende come qualsiasi lavoro tu vuole fare». I soldi, a fine mese, dovevano essere consegnati a Friday o alla sua compagna, così come quelli per saldare il costo del vitto e dell’alloggio, tra le 150 e le 200 euro mensili. Dopo anni di lavoro per strada, riuscì a saldare circa 15.000 euro delle 25.000 pattuite davanti al «padrone del voodoo».

IN STRADA DOPO IL CESAREO

Friday era ormai il suo padrone. La sfruttava sulla strada e abusava continuamente di lei, finché un giorno rimase incinta. Oggi non sa dire chi sia il padre del bimbo comunque destinato a venire al mondo: forse il boss nigeriano, forse uno dei suoi clienti. Quando scoprì quella gravidanza, il suo aguzzino provò a farla abortire, ma nonostante avesse ingerito massicce quantità di pillole, il bambino sopravvisse e venne alla luce. Durante tutto questo tempo, però, la ragazza, malgrado il pancione, i malesseri dovuti alla gravidanza e all’assunzione dei farmaci, dovette continuare a prostituirsi. Si fermò, in pratica, solo quando partorì grazie ad un cesareo. Dopo una settimana, col taglio ancora vivo, fu di nuovo obbligata a tornare in strada, tutto il giorno, tutti i giorni, tranne la domenica. «Domenica devi andare in chiesa… Per chiedere l’elemosina».

«IN ITALIANO MAFIA, IN INGLESE CULT»

Venne condotta a Bari, Lecce, Foggia, Taranto. Provò a ribellarsi e a chiedere di cambiare vita, ma fu tutto inutile. Minacciavano di fare del male a sua madre e a suo fratello. «Loro sono mafie», spiegò al pubblico ministero. Hanno un nome: «Arugaba o Vikings». E poi: «Sono un gruppo, tipo una gang». Vestono tutti uguali, con abiti rossi, blu o bianchi. Hanno riti esoterici e di affiliazione: «È tutto segreto… In italiano si chiama mafia, in inglese si chiama cult». Fu costretta a lasciare suo figlio. Finì poi a Torino, quindi a Palermo. E fu qui che, entrata in contatto con un’associazione di africani, iniziò a combattere per riavere il figlio rimasto in Puglia.

Nel frattempo, la mafia nigeriana sequestrò suo fratello e dovette pagare affinché fosse liberato. Sfinita, nel 2017, conobbe un avvocato che la convinse a denunciare. Il procedimento venne aperto a Reggio Calabria, dove la ragazza era approdata nel 2014. Procura e Polizia di Stato dovettero faticare a lungo per chiudere il cerchio in un ambiente criminale soffocato da omertà e violenza, tra rituali e linguaggi sconosciuti. Il blitz nel febbraio 2022. La libertà per la vittima, il carcere, il processo e la condanna per l’aguzzino, boss della mafia nigeriana riconosciuto colpevole in primo grado ma nel processo d’appello, che l’ha comunque condannato quale regista della tratta e stupratore seriale.

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