Così la sinistra vuole cancellare il ricordo della Vittoria

  • Postato il 4 novembre 2025
  • Politica
  • Di Libero Quotidiano
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Così la sinistra vuole cancellare il ricordo della Vittoria

Il mio prozio Orazio che nel 1915 era stato chiamato a liberare Trento e Trieste senza sapere neppure dove fossero, tornò dal fronte come grande invalido e cavaliere di Vittorio Veneto, luogo simbolo della vittoria del 4 novembre 1918. Era partito da un microscopico paesino abruzzese, Piccianello, assieme al fratello Attilio, che oltre alla croce di guerra guadagnò in battaglia, da soldato semplice, la medaglia di bronzo al valor militare. Orazio, classe 1889, aveva il volto solcato dalla lunga cicatrice lasciata da una scheggia di artiglieria.

Raccontava, a chi aveva voglia di ascoltarlo, la prima carica alla baionetta. Nel furore dello scontro si ritrovò di fronte un soldato austriaco. Si guardarono con un lampo negli occhi, e abbassarono i fucili. «Lui era uguale a me», diceva Orazio senza retorica, nella fratellanza della povera gente. E poi tanti giorni nelle trincee della Grande guerra, fino alla maledetta esplosione: una frustata di calore, il volto trasformato in maschera di sangue e carne, il buio totale.
Nella massa di corpi di soldati a terra lo avevano scartato con uno sguardo appena, ma lui con la mano si era aggrappato a un camice bianco lordandolo di rosso e aveva detto con un filo di voce che era vivo e voleva ancora vivere.

Dalla morte era stato protetto da un portazecchini (lo chiamava così) riposto in una tasca all’altezza del cuore. Era di metallo, e aveva fermato una scheggia letale.
Gli occhi azzurri di Orazio il 4 novembre si velavano di lacrime come quando qualcuno voleva sentire la sua storia antieroica, davanti al focolare e vicino a quel baule dove conservava la divisa grigioverde, il lungo fucile 91 disattivato e l’elmetto deformato. La sua vicenda era scritta nel panno e nel metallo, non su diplomi e medaglie.

UNIONE NAZIONALE
Il 4 novembre per lui era il giorno dei compagni che non c’erano più, caduti come le mosche sul Carso. Il 4 novembre oggi è, insieme, il Giorno della vittoria e delle Forze armate, di festa e di ricordo, di unione nazionale e persino di avversione ideologica. Accade solo in Italia. Nessuno in Francia o in Gran Bretagna o nel Commowealth si sognerebbe di contestare la ricorrenza dell’11 novembre, nel nome di una malata commistione che confonde politica e memoria.
Tutti i Paesi impegnati nel primo conflitto mondiale ricordano e onorano i caduti in quella tragedia, per una storia comune che non si può ignorare nel nome di un anacronistico credo di partito. La sinistra, che con la storia rifiuta sin troppo spesso di farci i conti, continua a far suonare il disco stonato di un malinteso quanto strumentale pacifismo manicheo, osteggiando la celebrazione della vittoria e delle Forze armate.

Il primo anniversario della fine della guerra, nel 1919, venne celebrato sottotono e in maniera spontanea, perché i socialisti si opponevano. E così il governo Giolitti consegnò i militari in caserma: niente parate, niente occasioni di scontri. Eppure nel 1921 sarà il socialista riformista Ivanoe Bonomi a celebrare il terzo anniversario di Vittorio Veneto con la solenne cerimonia dell’inumazione del Milite ignoto all’altare della Patria a simboleggiare tutti i caduti e dispersi senza nome. L’anno prima, come ministro della Guerra, a piazza Venezia aveva assistito all’arrivo di decine di migliaia di reduci e aveva tenuto un discorso sull’unità nazionale. Era l’anno in cui venivano inaugurati monumenti e collocati simboli per la memoria, in assenza di un provvedimento legislativo di istituzionalizzazione.

REDIPUGLIA
Nel 1922 Mussolini capo del Governo metteva il fez sul 4 novembre come giorno di festa nazionale e anniversario della vittoria, e iniziava a edificare la strumentalizzazione politica del mito. Il Sacrario di Redipuglia con l’ossessivo «Presente!» di caduti e ignoti risponderà pure a questa esigenza, ma va detto che la monumentalizzazione del ricordo si era diffusa in tutta Europa, dove presto sarebbe scoppiata un’altra guerra mondiale. Nel 1944 il capo del Governo Ivanoe Bonomi ripristinò la celebrazione a Roma liberata. Tanti, tra i leader del Comitato di liberazione nazionale, erano stati soldati nella Grande guerra, come Ferruccio Parri, Pietro Nenni, Emilio Lussu. La festa nazionale tornò tale nel 1946 con Alcide De Gasperi, in segno di continuità e come saldatura con l’esperienza resistenziale. Già in quel frangente storico il Pci e l’Anpi si discostarono e la frattura non si ricompose neppure con la legge 260 del 27 maggio 1949 con la quale la Festa della Vittoria diventava Giorno dell’unità nazionale, e il 28 settembre pure festa delle Forze armate, che la Costituzione repubblicana affidava ai cittadini in nome del «sacro dovere» di «difendere la Patria».

 

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Esauriti i venti del ’68 ma non smaltita l’ubriacatura ideologica, nel 1977 con la giustificazione di dover aumentare i giorni lavorativi il 4 novembre perse il rosso sul calendario posticipando la celebrazione alla prima domenica di novembre. Oggi persino dal mondo della scuola si leva la scandalosa voce che quel giorno non va celebrato, con docenti militanti che ai megafoni hanno sostituito le sirene dei social e alla storia la propaganda. Una malintesa quanto virulenta retorica tende a cancellare pure la memoria, anche attraverso manifesti sconcertanti come quelli dell’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle Università, dopo che il Senato il 12 luglio 2023 a maggioranza assoluta col Ddl 390 ha ripristinato la festività nazionale del 4 novembre Giornata dell’Unità nazionale delle forze armate. Il soldato Orazio aveva raggiunto i suoi commilitoni nel 1976, l’anno prima dell’abolizione della Festa della vittoria.

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Autore
Libero Quotidiano

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