Così la Cina sfrutta la crisi a Kyiv per rafforzarsi. Il nuovo ordine mondiale visto da Natalizia

  • Postato il 1 agosto 2025
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  • Di Formiche
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“Se si guardano i numeri, gli Stati Uniti sono ancora la principale potenza militare e con grande distanza rispetto agli altri. Ma anche la principale potenza economica”. A dirlo a Formiche.net è Gabriele Natalizia, direttore di Geopolitica.info e non resident senior fellow dell’Atlantic Council, in una conversazione su come sta cambiando l’ordine internazionale tra ascesa e declino di nuove potenze. “Il mondo occidentale guidato dagli Usa – spiega – ha ancora una posizione di primato, ma è un primato sfidato, in modo congiunto, da potenze revisioniste come la Repubblica Popolare Cinese, la Federazione Russa, l’Iran, arrivando fino a Nord Corea e Cuba”.

Stiamo assistendo ad un progressivo ritiro del soft power americano e della sua applicazione?

Il soft power è una proiezione all’hard power. Nel momento in cui una potenza detiene l’hard power, il soft power ne consegue. Il soft power è il concetto che quando uno Stato è una grande potenza o vince una grande guerra, il suo modello, il suo assetto valoriale sarà quello da seguire per navigare l’epoca e gli altri Stati lo guarderanno con paura, rispetto, ammirazione.

E questo modello è oggi in crisi?

L’idea che il soft power americano sia in crisi per le azioni di un singolo presidente è una prospettiva eurocentrica e debole. Il soft power, in realtà, non è mai indipendente dall’hard power: si proietta solo quando uno Stato è materialmente forte. È la forza, militare ed economica, che rende attraente un modello politico e culturale. La storia lo dimostra: si guarda sempre al vincitore. Il soft power è un pezzo di potere immateriale, però quello che credo che si stia incrinando davvero, in termini di potere immateriale americano, è anzitutto il prestigio.

Il prestigio cos’è?

È il potere che gli altri reputano tu abbia davvero. Si sta incrinando la certezza che, se succede qualcosa che va contro gli interessi americani, in qualsiasi polo del mondo, gli americani interverranno. Ed è la scommessa che ha fatto la Russia intervenendo in Ucraina. E questo l’hanno fatto con Biden, non con Trump, ancora prima ha iniziato con Obama, perché occorre ricordare quello che i russi si sono permessi di fare nel 2014, annettendo la Crimea. Quando il prestigio – o la percezione di esso – decresce, gli altri agiscono.

Qual è stato il momento in cui altri attori hanno messo in discussione il prestigio americano?

Il turning point in questo senso è il periodo 2007-2009, in cui si sommano due crisi. La prima, di tipo politico-militare: l’Afghanistan e l’Iraq non sono due vittorie, gli Stati Uniti non riescono a esportare democrazia, non riescono a fare state building come immaginavano e non portano a casa il risultato. Dall’altro lato, nel 2009, sono gli anni dell’impasse economico. Siamo noi, come Europa, che non abbiamo sufficiente soft power e, non contenti di essere meno coinvolti nelle dinamiche tra grandi potenze, oggi più unilaterali, riteniamo che il loro soft power possa essere in crisi.

Qual è lo scenario che si delinea?

L’ordine liberale, modellato con la fine della Seconda Guerra Mondiale e ancor di più dopo la fine della Guerra Fredda, nella sua componente di valore, di principi, di regole, è ormai delegittimato. Quello che è in crisi è, da un lato, il prestigio degli Stati Uniti, che significa la percezione che hanno gli altri del loro potere effettivo e della loro volontà di esercitarlo, dall’altro la legittimità dell’ordine internazionale. E ne sono un esempio tutte le operazioni portate avanti dalla Russia, la Cina e l’Iran.

Le crisi creano finestre di opportunità per gli attori revisionisti?

Certo, Mosca negli ultimi anni ha concentrato buona parte delle energie sull’Ucraina. Ma ha perso il Caucaso e il Nagorno-Karabakh che restava sostanzialmente indipendente grazie alla protezione russa, garante del popolo armeno. Appena la Russia ha concentrato l’attenzione sull’Ucraina, gli azeri sono entrati in Nagorno-Karabakh perché sapevano che Mosca non poteva distogliere energie né uomini dalla propria guerra.

E tornano le finestre d’opportunità come chiave strategica…

Esatto. Concentrare le proprie risorse su Kyiv comporta distogliere energie, interesse, attenzione all’Asia centrale, dove si infiltra sempre di più Pechino. Non ci si deve dimenticare che la Belt and Road Initiative ha il suo percorso sulla traiettoria terrestre che passa proprio attraverso l’Asia centrale. E il Cremlino rischia che il prezzo per rafforzare il potere sull’Ucraina sia la perdita di influenza in Caucaso, Asia e nelle altre parti del Near Abroad russo o, ancora, che per ottenere una porzione d’Ucraina si finisca per radicalizzare l’altra parte del Paese, rendendola irrecuperabile.

In questo è possibile ipotizzare uno o più worst case scenario?

Certamente, uno dei quali ruota attorno al fallimento occidentale dei negoziati per l’Ucraina. Nel caso in cui questi producano risultati sfavorevoli, chi dovrà farsi carico dell’accountability economica, militare e politica? Gli Stati Uniti? O L’Europa, sola, che si troverebbe di fronte al dilemma strategico rappresentato dalla decisione di sostenere o meno l’Ucraina. E in entrambi i casi i costi sono altissimi, sia nello scenario in cui Kyiv torna all’interno della sfera di influenza di Mosca, sia nel caso di un supporto solamente europeo, che comporterebbe sforzi economici ben oltre il 5% e che porrebbe interrogativi sull’urgenza di un ombrello nucleare proprio.

Tra i litiganti, la Cina?

Finché russi, americani ed europei si concentrano sullo stesso fronte, la Cina vince. E tiene tutti lontani dalle proprie zone di interesse. Il Pivot to Asia statunitense, che richiedeva una progressiva riallocazione delle risorse vero l’Indo-Pacifico, ha incontrato varie difficoltà, rappresentate dall’instabilità di più quadranti geopolitici globali. Allo stesso tempo, una Russia che concentra i propri sforzi in Ucraina è uno Stato che ha bisogno della sponda di Pechino, che in cambio ottiene energia e appoggio all’interno dei processi decisionali delle organizzazioni regionali ed internazionali.

Se Pechino non vuole una Russia sconfitta, non ne vuole neanche una trionfante…

Una Russia più forte è una potenza che difende meglio i suoi interessi in Asia Centrale. E questo non è negli interessi di Pechino. Anche lo scenario di un’Europa troppo debole non rientra nelle mire cinesi, questo perché il vecchio continente assorbe molto export cinese. E un’Europa troppo debole, economicamente in ginocchio è un attore economico che importa meno dalla Cina, soprattutto rispetto agli Stati Uniti che alzano dazi per risultati di qualsiasi tipo di bene arrivati da Pechino.

Nonostante i tentativi di revisione, lo status quo non può dirsi ancora cambiato?

Se si guardano i numeri, gli Stati Uniti sono ancora la principale potenza militare e con grande distanza rispetto agli altri. Ma anche la principale potenza economica. Il mondo occidentale guidato dagli Usa ha ancora una posizione di primato, ma è un primato sfidato, in modo congiunto, da potenze revisioniste come la Repubblica Popolare Cinese, la Federazione Russa, l’Iran, arrivando fino alla Nord Corea, a Cuba e riuscendo ad attrarre sempre più Paesi nelle loro organizzazioni o nei loro formati. Basti vedere il cambiamento di postura dell’Egitto o l’assunzione di una posizione terza e autonoma da parte dell’Arabia Saudita, prima allineata agli statunitensi.

Non possiamo dire che siamo in un nuovo ordine globale, o che c’è stato un cambio di polarità nell’ambito del sistema internazionale. Stiamo assistendo a evoluzioni che porteranno a qualche tipo di cambiamento, che potrebbe tradursi nel consolidamento di una nuova potenza egemonica o nel riconsolidamento del vecchio (attuale) ordine. Quello che è certo è che oggi lo status quo internazionale non è più stabile ma minacciato da chi lo sfida anche con mezzi militari, per esempio la Russia.

Autore
Formiche

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