Così il nucleare iraniano mette sotto stress Iraq, Siria e Libano

  • Postato il 21 maggio 2025
  • Esteri
  • Di Formiche
  • 1 Visualizzazioni

Cento giorni fa si insediava il nuovo governo libanese. Davvero nuovo il governo voluto dall’altrettanto nuovo presidente del Libano, l’ex generale Joseph Aoun. A ispirare questo governo di validissimi tecnici esterni ai partiti fondamentalmente c’era una frase pronunciata dal Presidente: “Lo Stato deve avere il monopolio delle armi, la politica nazionale di difesa dipende dal governo, non da altri soggetti o da potenze straniere”.

Da allora questa tematica è emersa come centrale in Iraq e in Siria. Nei giorni appena trascorsi le parole del generale Joseph Aoun sono state grosso modo ripetute dal Grande Ayatollah al Sistani, guida spirituale della maggiore comunità irachena, quella sciita, ma guidato da una teologia non teocratica, cioè non khomeinista.

Le contorsioni siriane poi hanno ruotato attorno a questo punto da circa tre mesi: curdi, alawiti e drusi entreranno nell’esercito nazionale ponendo fine alla storia delle loro milizie autonome. E il presidente al-Sharaa, un ex jihadista, rinuncerà al sostegno di molti foreign fighters presenti in Siria se loro compiranno questo passo? Il Segretario di Stato statunitense, Rubio, ha spiegato proprio così la decisione di togliere le sanzioni alla Siria del ex jihadista al Sharaa: se non lo avessimo fatto la Siria sarebbe esplosa, un’autentica implosione era alle porte. Rubio, piaccia o no, ha ragione e ora sta soprattutto ad al-Sharaa di dimostrare di essere cambiato, non più jihadista ma uomo di Stato (almeno un po’).

Così Libano, Iraq e Siria sono uniti da una questione: siamo degli Stati? Disponiamo del pieno controllo della nostra politica nazionale di difesa? Facciamo un esempio: se si arrivasse ad un confronto politico molto acceso con la Francia, per dire, il governo italiano gestirebbe questo confronto politico contando che nessuno sarebbe però in grado di attaccare militarmente Parigi dal territorio italiano. Possono dire la stessa iracheni, libanesi, siriani? Dal loro territorio non potrebbe aprirsi uno scontro miliziano interno o internazionale, con lancio di missili se il negoziato tra Stati Uniti e Iran, come si teme in queste ore, fallisse? Questo pregiudica tutto: non solo il controllo della politica nazionale di difesa, ma anche dell’economia. Solo il timore determina la fuga dei turisti, e quindi degli investitori.

Ora che l’accordo nucleare tra Iran e Stati Uniti viene detto in dubbio (chissà che non sia però la classica guerra dei nervi), Iraq, Siria e Libano sanno benissimo che le milizie filo-iraniane potrebbero usare il loro potenziale, molto ridotto ma sussistente, come deterrente: prevenire un attacco contro l’Iran e minacciare instabilità regionale. Questo impaurirà, pensano, gli Stati vicini, l’influente Arabia Saudita, ad esempio, che di tutto ha bisogno tranne che di altra instabilità.

L’accordo nucleare tra Usa e Iran così per questi Stati diviene una questione di politica interna, di stabilità nazionale, di scelte esistenziali per il futuro della convivenza nazionale. E’ questo il punto essenziale con cui si confronta il nuovo arabismo: gli Stati esistono, hanno diritto a decidere la politica nazionale difesa, o esistono gli imperi informali? Un impero informale è certamente quello che avevano costruito gli ayatollah khomeinisti in Iraq, Siria e Libano con il peso miliziano dei loro alleati che sottraevano a questi Stati la loro sovranità sottoponendola alla “sovranità superiore”, la volontà imperiale iraniana. Gli altri attori non sono esenti da mire egemoniche, ma agiscono più per la determinazione di aree di influenza. Uno Stato debole, ad esempio la Siria, le può accettare, magari in via provvisoria, ma può determinarsi a ritenere che per risorgere può affidare alcune sue risorse del sottosuolo a società estrattive straniere. Siccome parliamo di Stati economicamente falliti può non piacere, ma si può capire. Diverso è il ritenere che azioni militari, intraprese o in qualche modo provocate per riscaldare la piazza, siano legittime per difendere gli interessi di uno Stato terzo.

Non si tratta di ritenere legittimo o illegittimo un attacco militare contro l’Iran in caso di fallimento dei negoziati: si tratta di sottrarre allo Stato la decisione su come agire davanti a uno scenario simile. Il ragionamento antagonista sostiene che è un diritto, perché se Iraq, Siria e Libano non lo facessero sarebbe solo per le pressione economiche di Stati Uniti e Arabia Saudita. Ma quando in Siria sono stati massacrati dai filo-iraniani e dai loro alleati russi milioni di siriani, l’antagonismo cosa ha detto?

Il dilemma in cui questi Paesi oggi si trovano è comprovare l’esistenza dei loro Stati. Un’azione militare contro l’Iran li danneggerebbe, seminerebbe nuovo estremismo, nuova rabbia, nuova radicalizzazione. Ma un’azione miliziana a difesa dell’Iran comproverebbe ai cittadini di quei Paesi che i loro Stati non esistono. Non sono loro, tre Stati ridotti in condizioni di miseria estrema, a poter mutare le sorti del mondo. Loro dovrebbero preservare la dignità e il futuro dei loro cittadini. Come farlo dovrebbe essere il compito arduo dei governi, non la scelta di capi miliziani, che non rispondono alle opinioni pubbliche, ma a chi li finanzia e arma. Se rispondessero ai loro elettori, i capi miliziani, per esempio di Hezbollah, più che degli interessi iraniani dovrebbero occuparsi di tutelare gli interessi materiali degli sciiti libanesi, che non stanno molto bene e in caso di azioni armate non starebbero certo meglio. Questo non vale ovviamente solo per i filo-iraniani. In Siria, ad esempio, vale per le milizie curde, molto vicine agli americani, che però dovrebbero occuparsi dei curdi più che di ostacolare gli arabi, per quelle alawuite, molto vicine ai russi, per quelle druse, in parte sostenute da Israele, per alcuni gruppi jihadisti, sostenuti dai turchi che hanno mire espansioniste, e così via.

L’attualità dunque mette sostato stress i fautori di un ritorno in vita degli Stati, soprattutto quella emotiva alimentata dai gruppi legati a ideologie politiche o religiose. Una volta tornati in vita, questi Stati dovrebbero anche cercare forme nuove, perché le attuali sono forme inadeguate, frutto di equilibri spuri o dei lasciti totalitari del passato. Tutto servirebbe tranne che una nuova crisi regionale. Quelle esistenti bastano e avanzano.

Autore
Formiche

Potrebbero anche piacerti