Cosa significa la guerra dei 12 giorni nel mondo post-occidentale. L’opinione di de Vito

  • Postato il 7 luglio 2025
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In termini di politica di potenza, la rivalità tra Israele e Iran, con la sua storia di ostilità latenti e di improvvise fiammate, rappresenta solo la punta più avanzata delle dinamiche globali che sta progressivamente rimodellando l’ordine mondiale.

L’escalation della recente “guerra dei 12 giorni” con annesso intervento yaqui e successiva pace salomon-trampiana ha evidenziato in chiave contemporanea due certezze critiche del conflitto, destinate nel medio e lungo termine ad interpretare le sorti dell’intera partita mediorientale.

La prima: Israele ha ribadito – strategicamente non poteva ulteriormente arretrare – la sua superiorità militare nell’area, riaffermando una “reputazione di forza e risultato”, una impeccabile capacità d’intelligence, tecnologica e di organizzazione sul terreno; condizione che era stata erosa dalla crescita delle vicine potenze regionali (Turchia, Egitto in primis e Monarchie del Golfo) e dal loro attivismo nelle crisi regionali.

La seconda: l’intervento di Trump, bloccando di netto le ostilità e garantendo ambo le parti, ha affermato di fatto l’impossibilità di vittorie a “somma zero” sul terreno, spostando di fatto gli equilibri del confronto su ulteriori tavoli tattici. Per la prima volta una guerra preventiva (lampo) israeliana non è risolutiva, non marca il risultato strategico perseguito e non avanza nella sua sfera di vantaggio.

Difatti, La struttura di governo civico-religiosa iraniana, seppur colpita e decapitata in alcuni importanti settori militari e produttivi, rimane sostanzialmente intatta e saldamente al potere. Il concetto di “regime change” non sfiora neanche la società iraniana che colpita, si è strutturalmente comportata da Impero, producendo una reazione uguale e contraria.

Le difese aeree israeliane pur intercettando il 90% degli attacchi iraniani, per la prima volta hanno visto bucare il meta-rassicurante “iron dome”, il famoso sistema di difesa antimissile, generando un bilancio importante, in termini di cifre fredde – 28 morti e circa 3000 feriti – e soprattutto violando la suggestione di poter tenere la “guerra fuori casa”, presentando le normali condizioni di vita. Una situazione effettivamente nuova, evidenziata anche da fonti americane, secondo le quali Israele avrebbe avuto ulteriori problemi nell’intercettare missili balistici per un tempo eccessivamente prolungato.

Dall’altra parte, i dati forniti dal ministero della Sanità iraniano sono di 627 morti e i di 4870 feriti con la distruzione del programma sostanzialmente derubricato a danneggiamento/rallentamento e le scorte di uranio, da più fonti, ritenute preservate dai raid del 12 e 22 giugno sui tre siti di Fordow, Natanz e Isfahan.

Sicuramente siamo di fronte a un cambio radicale nel paradigma di confronto nel Big Game mediorientale: la forza esercitabile dall’asse Israele-statunitense – sempre superiore ed imparagonabile – non è, però proporzionale all’impegno, ovvero non è spiegabile in un contesto di guerra di logorio con un avversario dalle dimensioni più di 3 volte l’Iraq e con 90 milioni di abitanti e in gran parte giovani, per dare solo alcuni elementi di paragone.

Israele, tra l’altro dovrà interrogarsi sulla sua futura capacità di resilienza tenendo conto dell’evolversi della sua peculiare composizione sociale. Su un totale di circa 10 milioni di popolazione residente, il 20%, circa 2 milioni, sono arabo-israeliani, una componente “tollerata” se non considerata para-ostile nel dibattito interno e, tra l’altro, destinata ad aumentare per il suo forte tasso di natalità. L’alta minoranza di notevole impatto sono gli ebrei ultraortodossi (Haredim) che rappresentano il 13% della popolazione, circa un milione e duecentomila, anch’essa in forte aumento con una stima di crescita in dieci anni al 16%, (circa 2 milioni). Gli Haredim se da una un lato svolgono un ruolo sempre più determinante nelle dinamiche di governo nella Knesset, dall’altro l’esenzione dal servizio militare per gli studenti delle yeshiva è una delle principali fonti di tensione tra la comunità ultraortodossa e il resto della società israeliana.

L’esenzione risale alla fondazione dello Stato di Israele nel 1948, quando il primo Primo Ministro, David Ben Gurion, concesse a un piccolo gruppo di studiosi talmudici la possibilità di evitare il servizio militare per dedicarsi allo studio della Torah. All’epoca, si trattava di sole poche centinaia di persone, mentre oggi le argomentazioni sono essenzialmente identitarie, per la sopravvivenza spirituale e di missione del popolo ebraico, servizio che gli Haredim considerano paragonabile al servizio militare.

Il resto della popolazione circa sei milioni di persone costituisce la parte attiva, critica e di difesa della nazione e, peraltro rappresenta l’unica componente statica, non avendo importanti tassi di nascita. I dati demografici del 2024 rivelano un fenomeno di controtendenza che non si deve assolutamente sottovalutare nell’analisi costruttivista e di prospettiva. L’emigrazione (Yerida) è stata di circa 82.000 israeliani; un numero significativamente più alto rispetto agli anni precedenti al conflitto, mentre l’immigrazione (Aliyah), nonostante tutto, si è assestata ad un flusso di entrata di 35.000 unità – più 23.000 circa israeliani che erano all’estero sono rientrati nel Paese -, con un saldo migratorio netto negativo di circa 18.000 persone; un dato che non si registrava dagli anni ’50.

La lunga partita del Middle East segna una nuova tappa del suo tormentato cammino; da qui a dieci anni, Israele in primis, dovrà accuratamente prendere in considerazione le mutazioni sociali del suo corpo resiliente, specialmente quando la superiorità del fattore tecnologico darà ancora più spazio alla densità sul terreno.

Trump per quanto appaia arzigogolato nei suoi interventi in politica internazionale, sul punto ha ben compreso le difficoltà e i pericoli di una esposizione prolungata in Iran, di un coinvolgimento senza exit strategy e ha imposto uno stop tattico che descrive perfettamente la cifra del suo realismo politico nella gestione degli affari internazionali.

In Europa c’è ancora tanta difficoltà ad interpretare la nuova dottrina iperrealista americana che ha ben in conto i rischi e le opportunità dei nuovi centri di potere mondiali e con essi negozia interessi economici e di sicurezza. Questo vale per l’Ucraina, per il Medioriente e per tutti i dossier internazionali prescindendo dagli (storici) schemi di alleanza predefinite. Siamo in un mondo post-Occidentale come già Josep Borrell aveva avvertito.

Autore
Formiche

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