Cosa penso del confuso agitarsi al grido di “Free Palestine”. Scrive Polillo

  • Postato il 8 ottobre 2025
  • Politica
  • Di Formiche
  • 2 Visualizzazioni

Il day after le grandi manifestazioni Pro Pal sta dando luogo ad una discussione infinita. A sinistra si sottolinea la grande partecipazione popolare. A destra si mette l’accento sui disordini fomentati dai gruppi violenti e le relative devastazioni. Non sono poi mancati le giuste critiche di singoli episodi, come l’infame esposizione di quel grande striscione che inneggiava al 7 ottobre, come l’inizio della resistenza palestinese. Un’offesa bruciante non solo per gli israeliani decimati, violentati, ed infine deportati in quel giorno terribile. Ma per gli stessi palestinesi la cui resistenza, non necessariamente armata, ha una storia ben più lunga. Soprattutto più nobile.

Tutto questo era in parte inevitabile a causa delle contraddizioni che hanno caratterizzato quelle manifestazioni. In genere si scende in piazza per un motivo. Con un obiettivo nella testa. Contro la guerra del Vietnam, si invocava la pace e si sostenevano i vietnamiti nel loro diritto all’auto determinazione. Un sentimento talmente forte da costringere sia l’Urss che la Cina comunista, che si fronteggiavano militarmente sul fiume Ussuri, a mettere da parte le loro divergenze ed aiutare i viet cong. Potenza di una politica capace di superare il contingente ed evocare principi di carattere universale.

Nel caso della Palestina invece questa chiarezza di intenti non c’è. Le persone sono scese in piazza in modo spontaneo, per protestare contro le barbarie degli eccidi di massa di uomini, donne e bambini, che nulla avevano a che spartire con le posizioni di Hamas, degli Hezbollah o degli Houthi. Milizie, queste ultime, in apparenza fuori dal contesto. Ma elementi essenziali nella lotta, che fa capo all’Iran della guida suprema Alī Khāmeneī, contro l’”entità sionista”, come si ripete da quelle parti, che si vorrebbe distruggere. Il sentimento di umanità, in altre parole, ha guidato migliaia di persone normali verso la protesta. Ma quello stesso sentimento ha finito per far perdere di vista il movimento reale delle forze che si contrappongono in quella martoriata parte del mondo.

Il che spiega una seconda caratteristica di quelle manifestazioni. La mancanza di un reale obiettivo riassunto nella genericità dello slogan prevalente. Che vuol dire infatti “Palestina libera”? Significa riconoscimento di un popolo che ha il diritto di vivere sulla sua terra? Certamente. Ma in che modo? Grazie alla formula dei “due Stati” oppure invocando quello Stato che va dal “fiume al mare”, presupponendo la distruzione di Israele? Se si fosse scelta la prima formula, molti non avrebbero partecipato o forse gli incidenti contro la polizia sarebbero, invece, scoppiati all’interno della manifestazione: tra coloro che condividevano le parole d’ordine della manifestazione e coloro che le negavano.

Nei cortei che si sono visti, proprio per quella ambiguità di cui si è detto, invece, c’era di tutto. Il grosso, probabilmente, era costituito da semplici cittadini indignati di fronte alla barbarie di una guerra che non sa distinguere tra truppe combattenti e civili, considerati esclusivamente come soggetti sacrificabili. Semplici vittime o scudi umani utilizzati da Hamas? Neanche su questo c’è chiarezza, ma un continuo gioco delle ombre, in cui l’ambiguità la fa da padrona. Una guerra che non è fatta solo di bombardamenti e colpi di mortaio, ma di fame, di sete e mercato nero. Le cui vittime predestinate sono sempre le stesse. I più deboli: con un accanimento maggiore nei confronti dei vecchi e dei bambini. Una guerra che è anche deportazione. Che costringe ai grandi esodi di massa, che somigliano sempre di più alle bolge dell’Inferno dantesco.

C’era quindi sostanza per legittimare ogni indignazione. Ma insieme a costoro vi sono stati poi tanti altri. Vi sono stati i profughi palestinesi presenti in Italia, che gridavano la loro rabbia contro l’usurpazione della propria Terra. Gli immigrati che vedevano in quella lotta il riflesso speculare della loro condizione esistenziale. Ma vi erano anche i seguaci di Hamas che speravano di spostare a loro favore la forza dell’indignazione popolare. Si pensi solo a quel cartello che inneggiava al 7 settembre, di cui si è detto in precedenza. Circondato da militanti che lo avevano imposto durante tutta la manifestazione. Senza dimenticare, infine, quella sinistra italiana da tempo smarrita, alla ricerca di una propria identità.

In questo melting pot, in questo crogiolo di etnie e culture, sono calati, anche, i professionisti della politica. Quelli che una volta erano i “rivoluzionari di professione”, ma che oggi sono anime se non morte almeno tormentate. Il mondo, con la sua complessità, sfugge ai loro radar rudimentali, per cui non resta loro che agitarsi continuamente alla ricerca di quel consenso che consenta loro di incidere. Non si capisce su che e per che cosa, ma questo è del tutto irrilevante. Come nel film “I guerrieri della notte” vivono la loro Odissea in un viaggio che alla fine rischia solo di riportarli al punto di partenza.

Ed ecco allora gli slogan sulla “rivolta sociale”, che fa da eco alle vandaliche distruzioni dei casseur che non mancano mai in qualsiasi manifestazione che si rispetti. In passato – si pensi al terrorismo degli “anni di piombo” – furono isolati dopo un travaglio vitale. Ma perché allora c’era almeno un’idea sull’obiettivo da conseguire e quindi una strategia che prevedeva passaggi intermedi, sistemi di alleanze da ricercare e preservare, piccoli passi quotidiani verso un futuro da costruire. Contro la “sporca guerra” ed il napalm lanciato sulle risaie vietnamite non si lottava solo in Europa, ma negli stessi Stati Uniti. C’era, in altre parole, un’idea condivisa nelle sue linee generali. Che legava il momento internazionale alla realtà del quotidiano.

Si è tentato inutilmente di ripetere questo schema anche oggi. Ma i risultati sono stati più che deludenti, come hanno mostrato i recenti responsi elettorali nelle Marche e in Calabria. Se qualcuno pensava che gli eventi drammatici della Palestina potessero portare acqua al mulino della sinistra, sarà costretto a ripensarci. Soprattutto a riflettere sulla complessità di una realtà nazionale ed internazionale che non si presta più agli schemi interpretativi di un tempo: che, piaccia o non piaccia, è definitamente tramontato.

Autore
Formiche

Potrebbero anche piacerti