Corsa all’uranio, gli Stati col nucleare guardano al Kazakistan: ma Astana vende soprattutto a Russia e Cina. E la Francia ha perso il Niger

  • Postato il 2 marzo 2025
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Capita a volte che notizie che sembrano, per così dire, “laterali”, consentano invece di vedere con più chiarezza dinamiche sistemiche. È il caso della news rimbalzata nel settore nucleare: per la prima volta nella storia, il Kazakistan fornirà uranio alla Svizzera. Il paese elvetico sta cercando di rilanciare la produzione energetica domestica attraverso l’utilizzo dell’atomo, che attualmente concorre a coprire il 29% dell’energia elettrica consumata internamente, e ha deciso di affidarsi alla repubblica centro asiatica per le forniture di combustibile nucleare. Ma perché proprio il Kazakistan e perché proprio ora?

Il paese guidato dal presidente Kassym-Jomart Tokayev è il più grande produttore al mondo di uranio, in grado da solo di coprire il 40% dell’output globale staccando nettamente gli altri produttori sul podio, Canada e Namibia. Se si vuole acquistare uranio è quindi ad Astana che in primis bisogna guardare. Rispetto invece alla questione temporale, nel settore da alcuni anni è in corso una tendenza che vede la domanda globale aumentare significativamente: attualmente nel mondo ci sono oltre 400 reattori nucleari in piena attività e più di 60 sono in fase di costruzione di cui 29 solamente in Cina.

La spinta viene da più parti, non da ultima la crescente ricerca di fonti di energia meno impattanti sull’ambiente, un dato di fatto che la nuova presidenza di Donald Trump negli Stati Uniti potrebbe però mettere in discussione, non solo da parte di governi, ma anche delle aziende, quelle del comparto tecnologico su tutte. Questo, oltre a causare un rialzo dei prezzi, sta portando anche alla realizzazione di impianti più compatti e modulabili, con un’ulteriore accelerazione della necessità di uranio. Per riassumere in un numero: la domanda è data in crescita del 27% da qui al 2030.

La mossa di Berna assume un significato ancora più chiaro se si guarda anche alle dinamiche che stanno interessando il mercato dei produttori. Partendo dal Kazakistan, nel 2023 solo il 28% delle vendite della compagnia nazionale del settore dell’uranio, Kazatomprom, è andato ad acquirenti statunitensi, canadesi, francesi e britannici, in calo rispetto al 60% del 2021. Contestualmente sono raddoppiate le vendite a controparti cinesi e russe. Soprattutto le prime sono viste come più affidabili rispetto a quelle russe e a quelle occidentali, a causa del quadro sanzionatorio imposto a Mosca da Washington e Bruxelles dopo l’invasione dell’Ucraina.

Mentre l’Europa tentenna, gli USA hanno vietato l’importazione di prodotti russi a base di uranio, mossa a cui il Cremlino ha risposto annunciando un parallelo divieto di esportazione verso il mercato americano. A fine 2024, inoltre, Rosatom ha annunciato la vendita delle sue partecipazioni in diversi giacimenti di uranio in Kazakistan sviluppati congiuntamente a società afferenti a Pechino, con quest’ultima che ha sempre più le mani sul settore minerario kazaco.

Un altro grattacapo per il mercato globale è arrivato dal Niger: a sua volta uno dei principali produttori mondiali di uranio, nel 2023 il paese africano ha rappresentato il 16% delle forniture per la compagnia francese Orano, ma dopo il colpo di stato del luglio di quell’anno il governo nigerino ha tolto alla società i diritti minerari di cui godeva nel paese. Nel 2024, poi, è arrivato lo stop definitivo delle esportazioni da parte di Niamey a causa del caos interno.

Gli occhi di molti sono ora puntati sul Canada: il più grande produttore canadese, Cameco, ha dichiarato una crescita della produzione interna pari al 30% nel 2024 rispetto all’anno precedente, e il ministro dell’Energia di Ottawa ha sottolineato che gli investimenti nel comparto nazionale sono ai livelli più alti degli ultimi due decenni, con ulteriori prospettive di crescita. Il consumo interno è molto relativo e il Canada è in grado di esportare circa l’80% della sua produzione annua. Un aumento di quest’ultima darebbe quindi respiro alle aziende occidentali in cerca di nuove fonti di approvvigionamento.

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