Contro la legge francese sull’aiuto a morire. L'intervista a Jean Leonett

  • Postato il 25 marzo 2024
  • Di Il Foglio
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Contro la legge francese sull’aiuto a morire. L'intervista a Jean Leonett

Jean Leonetti, sindaco LR (partito repubblicano) di Antibes e cardiologo di professione, ha dato il suo nome alle leggi francesi del 2005 e del 2016 sui diritti dei malati in fin di vita. Il Figaro nei giorni scorsi l’ha intervistato.

Le Figaro - Emmanuel Macron ha svelato il contenuto di un progetto di legge sull’“aiuto a morire”. Questa legge detta di “fraternità” aprirebbe un “via che non esisteva” con l’ambizione di conciliare “autonomia” e “solidarietà”. Cosa ne pensa?
Jean Leonetti - Il progetto che oggi ci è presentato è il contrario di un progetto di fraternità. Il dibattito etico è in effetti un conflitto di valori tra la protezione della vulnerabilità, in nome della fraternità, e il rispetto dell’autonomia della persona, in nome della libertà. Si nota bene che gli orientamenti proposti privilegiano la libertà individuale rispetto alla fraternità collettiva poiché viene permesso di dare la morte a persone vulnerabili in nome della loro libertà di scelta. Ciò spezza il fragile equilibrio tra autonomia e solidarietà.

E’ vero che la legge Claeys-Leonetti non permette di trattare determinate situazioni umanamente molto difficili che spingerebbero i nostri concittadini ad andare all’estero come sostiene il presidente della Repubblica?
La legge attuale è in effetti destinata alle persone che “stanno per” morire e non alle persone che “vogliono” morire. Il testo legislativo oggi in vigore fissa come obiettivo di alleviare la sofferenza in fase terminale “anche se” questo dovesse affrettare il decesso, ma non di provocare deliberatamente la morte. Le persone che si recano all’estero lo fanno affinché sia loro somministrata una sostanza letale e non per essere accompagnati e curati. D’altra parte non è perché un paese autorizza una pratica e perché alcuni cittadini vi fanno ricorso che si deve legiferare nella stessa direzione. Seguendo questa logica si autorizzerebbero allora le “madri surrogate” solo poiché questa pratica è autorizzata legalmente in alcuni paesi europei. La Francia non dovrebbe allinearsi sul “male minore etico”. La nuova legge non è in continuità con le leggi approvate nel 2005 e nel 2016 dal momento che essa rappresenta, al contrario, una frattura rispetto a un progetto di accompagnamento e di cure al quale essa mette fine.

 

Emmanuel Macron ha ragione nel dire che questo “aiuto a morire”, da lui inteso come un nuovo modello francese, non è né un’eutanasia né un suicidio assistito?
Si tratterebbe dunque di non autorizzare né il suicidio assistito né l’eutanasia. Si tratterebbe quasi di immaginare che questo “aiuto a morire” consisterebbe semplicemente nell’applicare le leggi attuali che costituiscono un modello originale francese. In realtà la nuova legge autorizzerà sia eutanasia che suicidio assistito. La presentazione fatta da Macron tradisce la volontà di non dare alle cose il loro nome: la tattica delle parole contro l’etica dell’azione. Non si utilizza il termine eutanasia, rifiutato dal corpo medico che non la considera giustamente un atto di cura, e si elimina la parola suicidio che è avvertita come sinistra da tutti coloro che considerano il darsi la morte più come un atto di disperazione da evitare che una libertà da favorire. Conosciamo la frase attribuita a Camus: “Falsificare il nome delle cose significa aumentare l’infelicità del mondo” (“mal nommer les choses, c’est ajouter au malheur du monde”). Il modello francese proposto non sarà dunque molto originale, permetterà “allo stesso tempo” e senza nominare né eutanasia né suicidio assistito, di dare la morte a qualcuno secondo queste due modalità già autorizzate in alcuni sistemi legislativi esteri; infatti questa è la procedura utilizzata in Oregon e in Belgio. A titolo personale, io considero, e l’ho anche espresso al presidente della Repubblica quando l’ho incontrato, che il suicidio assistito sul modello dell’Oregon è un male minore rispetto alla legge che permette l’eutanasia, sapendo tuttavia che il “male minore” resta un male.

 

Maggiore età, capacità piena e completa di intendere e di volere, malattia inguaribile, prognosi infausta a breve, sofferenze fisiche o psichiche, decisione medica e collegiale… Tutti questi criteri definiti per mettere dei limiti a questo “aiuto a morire” le sembrano sufficienti e pertinenti?
Le porte socchiuse finiscono per spalancarsi. In tutti i paesi che hanno autorizzato un diritto alla morte volontaria sono state messe in atto delle condizioni restrittive per l’applicazione della legge che si sono a poco a poco indebolite. Così in Belgio la legge si è estesa ai bambini e ai malati psichiatrici. In Canada il criterio della “prognosi infausta a breve” è sparito rispetto al testo legislativo originale. Si vedono già le richieste di qualcuno di “spingersi oltre”, e questo sarà inevitabile se ci si basa solamente sul criterio della volontà attuale di un paziente. Qualsiasi limite apparirà allora come un intralcio alla sua libertà. Per quanto riguarda il criterio maggiore di prognosi infausta a breve, è importante notare che è più facile definire medicalmente “il breve termine” (qualche giorno o settimana) che il “medio termine” (qualche mese o anno). Il margine di errore aumenta con la durata. Se si dà la morte sulla base di una valutazione prognostica che prevede un anno di vita, si rischia di non lasciar tempo a un miglioramento delle condizioni cliniche sempre possibile e a un cambiamento della volontà del paziente. Alla fine della vita si cambia spesso opinione, i morti non cambiano opinione.

 

Il progetto presidenziale include la questione delle cure palliative che beneficerebbero di mezzi supplementari anche prima della pubblicazione della legge. Non è quello che chiedevano i medici?
Associare nello stesso tempo lo sviluppo delle cure palliative e il diritto di dare la morte è un artificio di presentazione per illudere che il testo sia in equilibrio tra solidarietà e rispetto dell’autonomia. Tutti sanno che le cure palliative non hanno bisogno di una nuova legge ma soltanto di mezzi per attuare la legge del 1999. Quest’ultima garantisce a ogni francese l’accesso alle cure palliative ma non è sempre applicata. In Francia si muore ancora male. I francesi temono di soffrire più ancora che di morire, essi ricordano spesso dolorosamente la fine della vita di un proprio caro le cui sofferenze non sono state alleviate. I francesi preferiscono quindi anticipare la morte piuttosto che patire per loro e per i loro cari un periodo di dolore. Alla fine della vita non si deve essere costretti a scegliere tra la sofferenza e la morte. 

 

Che approccio suggerisce?
Perché non abbracciare veramente la causa della fraternità sviluppando l’idea che ogni vita merita di essere vissuta, che le persone vulnerabili non sono di troppo, non pesano sulla società e al contrario la arricchiscono? E se le cure palliative diventassero un vero obiettivo nazionale? Se si applicassero le leggi esistenti allora magari “l’opinione” diventerebbe “un pensiero” conforme ai nostri valori e reclamerebbe vita più lunga e migliore, piuttosto che invocare la morte per liberarsi dalla sofferenza, dalla solitudine e dall’abbondono. Non si sono mai presi in considerazione i criteri sociali delle persone che chiedono di morire. Ora, esiste il rischio che la povertà o la solitudine costituiscano situazioni favorevoli alla richiesta di morte. In Canada quest’idea sembra farsi strada dal momento che i sondaggi mostrano che circa un terzo della popolazione desidererebbe il suicidio assistito per questa categoria di persone.

 

Perché lei è scettico sul piano decennale annunciato per le cure palliative?
Come non avere dei dubbi su un progetto distribuito su tre mandati che si proporrebbe di colmare entro i prossimi dieci anni il ritardo degli ultimi dieci? Nell’attesa rischiamo una “legge in difetto” per la quale la morte sarà possibile ovunque mentre l’accompagnamento ci sarà solo in alcune zone. Più di venti dipartimenti sono ad oggi sprovvisti di unità di cure palliative. Queste unità ricevono i pazienti più complessi e più difficili, quelli che sono i più disperati. Non dimentichiamo che la richiesta di morire diminuisce considerevolmente con l’attuazione di una presa in carico palliativa. Inoltre, anche se arrivassero i mezzi finanziari, si sarà in grado di rispondere alla domanda in presenza della crisi di personale che vivono oggi i nostri ospedali?

 

Il testo sarà presentato al Consiglio dei ministri alla fine del mese di aprile. Cosa ne pensa del calendario scelto e del modo in cui la riflessione è stata condotta?
Il dibattito e la concertazione su argomenti di tale complessità umana richiedono tempi lunghi. In realtà la scelta di Emmanuel Macron di aprire nella nostra legge un “diritto alla morte” che egli presenta con il termine ambiguo di “aiuto a morire” è stabilita da lunga data. Questo progetto suscita dunque l’inquietudine dei professionisti curanti in particolare delle cure palliative. Vedono la loro missione messa in discussione. Inquietudine però anche dei giuristi che vedono un possibile attacco ai diritti fondamentali. Senza contare tutti quelli che ritengono pericoloso aprire il vaso di Pandora di una tale trasgressione. 

 

Come i parlamentari dovranno affrontare questo progetto di legge nel mese di maggio?
So che essi voteranno secondo la loro coscienza e con il dubbio “utile e fertile” che evocava Axel Kahn su questo tema, sapranno, ne sono certo, evitare le certezze personali e essere rispettosi di tutte le opinioni. Sono dei momenti nei quali il dibattito deve essere profondo, sereno e basato su delle convinzioni e non su delle strategie politiche. Ma è evidente che un tale calendario che coincide con la campagna delle elezioni europee è piuttosto mal scelto.

 

Questa legge può permettere di “guardare la morte in faccia” come assicura il capo dello stato?
François de La Rochefoucauld ha detto che “il sole e la morte non si possono fissare con lo sguardo”. Piuttosto che guardare la morte in faccia io proporrei di guardare la vita con intensità fino alla fine. Alla fine della vita è comunque ancora la vita stessa che può portare gioia e felicità condivise.

Le dimensioni etiche e religiose di questa legge sul fine vita le sembrano adeguatamente considerate?
“Non uccidere” è alla base di tutte le società umane evolute. E’ un principio umano, sia che si creda al Cielo sia che non vi si creda. Per il filosofo Levinas il volto dell’altro mi impedisce di ucciderlo. Trasgredire questa regola rimette in causa l’essenziale della nostra concezione di umanità. L’ex ministro della Giustizia Robert Badinter l’aveva espresso molto chiaramente e con acume in occasione di un’audizione sul fine vita: “Nessuno può togliere la vita a un altro in una democrazia”.

(traduzione di Ferdinando Cancelli)

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Il Foglio

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