Contro il sistema

  • Postato il 11 giugno 2025
  • Attualità
  • Di Paese Italia Press
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di Francesco Mazzarella

Ci sono silenzi che gridano più forte delle parole. E ci sono parole che, appena pronunciate, diventano un bersaglio. Parole che non descrivono solo la mafia, ma il suo riflesso più scomodo: quello che si annida dentro lo Stato. Parlare di mafia è già un atto di coraggio. Ma parlare della mafia nello Stato, o dello Stato nella mafia, è qualcosa che assomiglia a un suicidio civile. Significa mettere in discussione la legittimità delle istituzioni, la purezza della democrazia, l’inviolabilità della legge. Significa dire che il male non è solo fuori, ma anche dentro. E che il confine tra giustizia e potere è molto più poroso di quanto si voglia credere.

Ci sono uomini e donne che, nella storia della Repubblica, hanno fatto proprio questo: hanno indicato la presenza del crimine organizzato non solo nei vicoli delle periferie, ma nei corridoi del potere. Lo hanno fatto con prove, con testimonianze, con documenti. E per questo sono stati isolati, delegittimati, esposti. Non sempre uccisi, ma quasi sempre abbandonati. Perché lo Stato, quando viene messo sotto accusa da uno dei suoi stessi figli, non si difende: respinge. E spesso lo fa senza fare rumore.

La trattativa Stato-mafia è il nome che si è dato a questo intreccio di rapporti, ambiguità e compromessi. Un nome che è diventato processo, poi assoluzione, poi verità parziale. Ma prima ancora, è stato un’ipotesi che molti hanno rifiutato di considerare. E che pochi hanno avuto il coraggio di raccontare. Tra loro, il collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza. Un killer di mafia che, dopo anni di silenzio, decide di parlare. E non solo di altri mafiosi, ma anche di politici, carabinieri, pezzi di Stato. Racconta ciò che non si voleva sentire: che le stragi del 1993 non furono solo vendetta, ma messaggi. Che qualcuno, dall’altra parte, era pronto ad ascoltarli.

Spatuzza accusa, ma lo fa con meticolosità. I suoi racconti trovano conferme, ma disturbano. Non rientrano nella narrazione ufficiale. Non servono alla retorica delle istituzioni che combattono unite il crimine. Servono, semmai, a incrinare l’illusione di uno Stato totalmente innocente. E allora vengono ridimensionati, messi in discussione, trattati come testimonianze collaterali. Come se un pentito potesse dire la verità solo fino a un certo punto. Fino a quando non coinvolge chi dovrebbe essere al di sopra di ogni sospetto.

Ma Spatuzza non è solo. Anche Salvatore Borsellino, fratello di Paolo, ha denunciato per anni il muro di gomma che ha protetto le responsabilità istituzionali nella strage di via D’Amelio. Ha chiesto nomi, spiegazioni, giustizia. Ha indicato piste, depistaggi, coperture. E per questo è stato ascoltato con rispetto, ma anche con fastidio. Perché non si può celebrare un martire e al tempo stesso ignorare le domande scomode che emergono dal suo sacrificio.

Un altro nome difficile da collocare è quello di Massimo Ciancimino, figlio di Vito, il sindaco mafioso di Palermo. Le sue rivelazioni hanno aperto scenari nuovi: documenti, appunti, nomi di funzionari. Anche lui parla di una trattativa, di contatti, di patti. Ma la sua figura è ambigua, sfuggente. E così anche la sua verità diventa “opinionabile”. Nonostante le conferme incrociate, le sue parole restano sospese. Come se il suo cognome rendesse impossibile distinguere tra bugia e testimonianza.

Poi ci sono i magistrati. Uomini dello Stato che, in nome dello Stato, hanno osato accusarlo. Come Nino Di Matteo, che ha portato avanti il processo sulla trattativa Stato-mafia con ostinazione, pagando un prezzo altissimo in termini di isolamento. O come Roberto Scarpinato, procuratore generale a Palermo, che ha parlato apertamente di “sistemi criminali integrati” tra mafia, politica e massoneria deviata. La loro colpa non è aver sbagliato. È aver parlato troppo chiaramente.

Anche il mondo del giornalismo ha conosciuto questa forma di censura silenziosa. Attilio Bolzoni, Lirio Abbate, Saverio Lodato: cronisti che hanno raccontato non solo le mafie, ma i loro legami con le stanze del potere. Hanno subito minacce, intimidazioni, campagne di delegittimazione. Eppure hanno continuato. Perché raccontare non è solo un mestiere. È un dovere.

Il problema, però, non è solo la censura. È la normalizzazione del dubbio. Ogni volta che qualcuno parla della mafia nello Stato, si attiva un meccanismo perverso: si mette in discussione la sua lucidità, la sua buona fede, le sue fonti. Lo si isola non per smentirlo, ma per svuotarlo di forza. Per renderlo un corpo estraneo. Un testimone ingestibile. Uno che “disturba”.

E così, la verità si allontana. Non perché sia falsa, ma perché è troppo grande per essere gestita. E chi la racconta, anziché essere protetto, viene reso vulnerabile. Succede ai magistrati, ai giornalisti, ma anche ai semplici cittadini che denunciano, che parlano, che si espongono. Succede a chi, dentro le istituzioni, prova a fare luce e si ritrova solo.

La mafia nello Stato non è sempre una presenza organizzata. Non sempre è una cupola istituzionale. A volte è solo un’abitudine. Una tolleranza. Un’inerzia. È il silenzio davanti a un favore. È la promozione garantita a chi chiude un occhio. È l’incarico affidato a chi è “uno dei nostri”. È l’impossibilità di andare fino in fondo. È l’autocensura di chi sa, ma sceglie di non dire.

Ed è proprio questo che rende il fenomeno così pericoloso. Non si tratta più solo di combattere la mafia come entità criminale. Ma di riconoscere la sua capacità di infiltrarsi, di confondersi, di mimetizzarsi. Di diventare parte del sistema. Di vivere nel cuore stesso della legalità. E di usarla come scudo.

È una verità che fa paura. Perché se è vero che lo Stato ha combattuto la mafia con coraggio, è anche vero che, in certi momenti, l’ha tollerata. L’ha usata. Le ha parlato. E ogni volta che qualcuno ha osato raccontarlo, ha pagato un prezzo.

Forse la più grande difficoltà è proprio questa: accettare che la lotta alla mafia non è una guerra tra buoni e cattivi. È una guerra più sottile, in cui il male può nascondersi anche dove ci aspetteremmo di trovare solo il bene. E in cui il coraggio non è solo nelle aule di giustizia, ma anche nella solitudine di chi dice la verità e sa che nessuno vuole ascoltarla.

Chi ha parlato della mafia nello Stato non è un eroe romantico. È spesso un testimone stanco, ferito, disilluso. Ma è anche la coscienza scomoda di un Paese che vuole dimenticare in fretta. Che preferisce le celebrazioni alle denunce. Le targhe ai processi. I cortei alla memoria attiva.

Eppure, finché ci saranno voci che non si piegano, finché ci sarà chi decide di raccontare anche quello che nessuno vuole sentire, ci sarà una possibilità. La possibilità che la giustizia non sia solo un meccanismo, ma una promessa. E che lo Stato, prima o poi, abbia il coraggio di guardarsi allo specchio. Anche se l’immagine che vedrà sarà imperfetta, disturbante, vera.

📌 9 giugno – “Verità a metà prezzo”: i pentiti che hanno cambiato la storia
📌 10 giugno – “La bugia come strategia”: le false collaborazioni e i depistaggi
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