Contratti confusi ed errori in busta paga: il caso della coop che lavora in appalto nei musei dell’ateneo di Bologna

  • Postato il 21 aprile 2025
  • Lavoro
  • Di Il Fatto Quotidiano
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Stipendi tagliati, contratti confusi e silenzi: “Facciamo tutto, ma siamo invisibili”. È questo il quadro delle condizioni lavorative del personale esternalizzato del Sistema Museale dell’Università di Bologna. Sono 15, tra musei e collezioni, le strutture dell’ateneo bolognese in cui la protesta delle lavoratrici e dei lavoratori non si ferma da più di un mese. A muoversi è un gruppo trasversale di operatori museali, sostenuti dall’Assemblea precaria universitaria Bologna e da sindacati di base, che denuncia inquadramenti contrattuali inadeguati, buste paga spesso errate, mancanza di tutele in materia di sicurezza e gestione caotica da parte della cooperativa Macchine Celibi, che da un anno ha in appalto il servizio. “Chiediamo solo di essere riconosciuti come lavoratori – spiegano a Ilfattoquotidiano.it – invece siamo invisibili”.

Dietro le vetrine dei musei universitari si cela una realtà frammentata e disfunzionale. I 25 operatori, spesso giovani laureati nel settore culturale, svolgono mansioni di biglietteria, accoglienza, mediazione culturale e progettazione didattica, ma sono suddivisi su contratti diversi: cooperative sociali, multiservizi e contratto teatri o a chiamata. Stesse mansioni, diritti e stipendi diversi. C’è chi prende circa 8 euro l’ora, chi riceve cedolini incomprensibili, chi lavora con contratti a chiamata rinnovati ogni sei mesi nonostante una presenza continuativa da più di un anno. “È un sistema che crea confusione e insicurezza, anche psicologica”, dicono. “Abbiamo scoperto ammanchi di centinaia, in alcuni casi migliaia di euro, segnalati più volte”.

Oltre alle irregolarità economiche, il tema della sicurezza e della gestione quotidiana pesa come un macigno. Le richieste di ferie o permessi spesso restano senza risposta per settimane, anche in caso di urgenze. La figura della coordinatrice è assente o sfuggente e il carico organizzativo ricade su un gruppo di lavoro che tenta di autogestirsi per tenere in piedi il servizio. “Ci aiutiamo tra noi – raccontano – ma ci sono responsabilità che spettano a chi gestisce, non ai lavoratori”. Incertezza, poco riconoscimento e instabilità economica emergono dal loro racconto: “Quando arriva il giorno della paga, ho lo stomaco chiuso. Ogni volta mi chiedo: sarà giusto questo mese? O dovrò di nuovo scrivere mail su mail per farmi dare quello che mi spetta?”.

Sono una ventina le persone coinvolte nella gestione quotidiana di uno dei patrimoni culturali più importanti della città. Molti di loro lavorano dentro strutture come Palazzo Poggi, la Specola, la Collezione di Zoologia. Musei frequentati ogni giorno da scolaresche, turisti, famiglie. Ma dentro chi tiene aperti quei luoghi è lasciato in balia di una gestione caotica. “Per avere un permesso o un giorno di ferie a volte devi scrivere dieci volte. Una collega ha dovuto mandare messaggi su WhatsApp per settimane prima di ricevere una risposta. E anche allora, niente di chiaro”. Dopo il presidio del 5 marzo, una delegazione di lavoratori è stata ricevuta da alcuni funzionari del rettorato che ha promesso di monitorare la situazione. “Lavoriamo nei musei più visitati e importanti di Bologna, con passione e competenza – spiegano – ma ogni giorno ci sentiamo come se stessimo facendo un favore a qualcuno, non un lavoro retribuito”.

Ilfattoquotidiano.it ha provato a contattare la cooperativa Macchine Celibi senza ottenere nessuna risposta. Anche il sindacato interviene con durezza. “La situazione dei musei Unibo è la rappresentazione plastica del sistema degli appalti al ribasso – spiega Manuel Mesoraca della Funzione Pubblica Cgil di Bologna – dove a pagare sono sempre i lavoratori, con stipendi mancanti, contratti incoerenti e nessun riconoscimento della professionalità”. Il sindacato ha denunciato più volte alla cooperativa e all’ateneo irregolarità nei contratti, nella sicurezza e nelle retribuzioni. Il problema è comune su tutto il territorio italiano precarietà e sfruttamento non sono anomalie, ma purtroppo sono spesso presenti nel sistema degli appalti culturali. Un sistema che, a forza di risparmiare, scarica tutto sui lavoratori. “Il nostro lavoro è fondamentale per l’università – dicono – e non ci fermeremo”.

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