Contrariati in privato, favorevoli in pubblico: il sì dei Paesi arabi al Piano di Trump per Gaza in nome della cooperazione economica

  • Postato il 1 ottobre 2025
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Il piano in venti punti proposto da Donald Trump per la fine della guerra a Gaza è stato pubblicamente accettato dal primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu che tuttavia in un messaggio alla nazione in lingua ebraica ha ribadito che non vi sarà mai uno Stato palestinese in contrasto con il punto 19 del piano stesso. L’autorità nazionale palestinese ha espresso “fiducia” in Trump, condividendo il disarmo di Hamas. Ciò, tuttavia, introduce la reazione dell’Egitto di Al Sisi che, attraverso un suo diplomatico intervistato dal Middle east eye, ha fatto sapere di non aver apprezzato la mancata menzione della Autorità palestinese nella prima fase della gestione politica della Striscia di Gaza – si parla di tecnocrati e di esperti internazionali – e di non poter promettere, al momento, l’invio di truppe per la gestione congiunta della sicurezza – insieme ad altri paesi arabi – nell’ambito della creazione delle Internal Security Forces (Isf). Perlomeno non prima che venga delineato un chiaro percorso per l’affidamento del potere nella Striscia all’Autorità Nazionale Palestinese e per un pieno ritiro delle IDF.

Alla stessa Hamas sono state concesse 72 per accettare il piano, mentre il Jihad islamico palestinese lo ha già definito “una ricetta per far esplodere la regione, per continuare ad aggredire i palestinesi, e per imporre ciò che Israele non è riuscito ad imporre con la guerra”. Ancor più rilevante è la reazione dei paesi del quadrante regionale, anche se non tutto è ciò che sembra. Turchia, Pakistan, Indonesia, Giordania, Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita e lo stesso Qatar – paese bombardato da Israele due settimane fa nel tentativo di assassinare una delegazione di Hamas – hanno rilasciato una dichiarazione congiunta in cui sostengono di apprezzare “il sincero sforzo di Trump per porre fine alla guerra”, e ribadiscono “fiducia nella sua capacità di trovare una soluzione pacifica”. Importante la menzione della West bank, non nominata nel piano bensì in una serie di dichiarazioni del presidente americano che ha promesso di non permettere ad Israele di procedere con la sua annessione. “In una soluzione a due stati, Gaza dovrebbe integrarsi pienamente col territorio della West bank nell’ambito di uno Stato Palestinese, in accordo col diritto internazionale”, si legge nel comunicato congiunto.

Secondo quanto raccolto da Axios, Qatar, Arabia Saudita, Giordania, Egitto e Turchia sarebbero contrariati per il piano presentato da Trump perché il testo che la Casa Bianca ha ufficialmente pubblicato sarebbe pesantemente diverso da quello che lo stesso Trump aveva discusso pochi giorni prima con gli stessi leader arabi e regionali a margine della scorsa Assemblea generale delle Nazioni Unite. Nel piano reso pubblico si afferma che l’Autorità Palestinese potrà assumere il potere “dopo il completamento di un programma di riforme” che rimane imprecisato ed in nessun punto si garantisce – preferendo un blando auspicio – la creazione di uno Stato palestinese, come richiesto appunto a Trump dai citati leader.
Del resto il piano di Trump concepisce la Striscia di Gaza come un problema di sicurezza, di ordine pubblico e di potenziale minaccia terroristica per Israele, e non è un caso se gran parte dei punti del piano affrontano questa dimensione, invocando o promuovendo la partecipazione degli Stati arabi vicini. L’intenzione del presidente americano è quella di delegare la gestione della sicurezza a partner come Egitto e Giordania ma anche, più in generale, a quelli coinvolti negli Accordi di Abramo: paesi cioè che già prima dell’inizio dell’ultima guerra avevano sostanzialmente messo da parte le ostilità storiche verso Israele, scegliendo di cogliere le opportunità derivanti da una piena integrazione – sponsorizzata dallo stesso Trump – nel framework finanziario e militare israelo-americano. Secondo lo stesso Abraham Accord Peace Institute, gli accordi potrebbero generare fino a un trilione di dollari di nuova attività economica nei primi dieci anni, nonché circa 4 milioni di posti di lavoro nello stesso periodo. Gli Emirati Arabi Uniti, per esempio, hanno stanziato già circa 10 miliardi di dollari per investimenti strategici in Israele in settori come l’energia, l’aerospaziale, l’acqua, la sanità e l’agri-tech. E la compagnia emiratina Mubadala ha acquisito una quota del 22% nel campo petrolifero Tamar in Israele per una cifra di 1,1 miliardi di dollari.
Sembra quindi definitivamente sciolto l’antico “nodo palestinese”, in base al quale, negli ultimi due decenni, i paesi arabi escludevano la normalizzazione con Israele finché non fosse nato uno Stato palestinese, o meglio finché non si fosse perlomeno percorsa l’ipotesi della “iniziativa araba di pace” del 2002 che richiedeva in sostanza il ritiro di Israele non solo da Gaza ma anche dalla West bank, dal Golan e dal Sud del Libano. Gli accordi di Abramo hanno finito quindi per scavalcare questa ormai antica condizione e i governi dei paesi del golfo in particolare, in virtù anche di rapporti personali tra gli Emiri, Mohammad Bin Salman e Trump, hanno scelto da tempo di privilegiare i benefici economici immediati. Questo ha prodotto un diffuso immobilismo diplomatico sulla questione palestinese, un certo grado di sottomissione “narrativa” con cui relegare il tema a protocollari dichiarazioni di principio e, di riflesso, una legittimazione implicita dello status quo. Se i legami economici si rafforzano, mettere in discussione la condotta di Israele diventa più costoso. Questo tipo di impostazione sembrava in parte aver presentato il conto con l’intensificarsi dell’assedio su Gaza, perché in quella fase era emersa la forte ostilità ad Israele delle società civili regionali, distanti dalle posizioni dei loro rappresentanti.
Tuttavia, a parte qualche timida iniziativa, come ad esempio il congelamento da parte del Marocco di alcuni progetti di cooperazione con Israele, poco è cambiato. Gli accordi di Abramo, in un certo senso, hanno introdotto il concetto di una normalizzazione economica senza una pace politica, favorendo l’immobilismo arabo e indispettendo le società civili, in modo simile a come questo piano di Trump ha introdotto il tema della ricostruzione economica e della gestione securitaria di Gaza, senza affrontare davvero il tema politico della sovranità e della autodeterminazione. Una percorso che può aiutare a prendere tempo ma non può cancellare dalle coscienze regionali la centralità della questione palestinese.

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