“Con Trump Cina e Usa sono diventate potenze alla pari. La pace in Ucraina? Per Pechino non c’è nessun vantaggio”

  • Postato il 31 ottobre 2025
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Un incontro definito di “grande successo”, la prima stretta di mano dal 2019, la promessa di rincontrarsi e l’intesa commerciale. Quello però che Donald Trump ha annunciato come l’accordo con Pechino, in Cina viene visto come un passo di avvicinamento su alcuni punti molto precisi e concreti – dazi inclusi – e una fase di un lungo processo di dialogo, non una pacificazione. “In Cina si parla di ‘consensus’, gongshi, cioè di ‘comprensione condivisa’, che non significa decisione condivisa. In sostanza, una base di accordo per poi svilupparne uno accordo. È una parola più sfumata del deal americano, che invece abbiamo sentito molto spesso da Trump“. A parlare è Giada Messetti, sinologa e autrice del saggio “La Cina è un’aragosta. Come sta cambiando il Gigante Asiatico” (Mondadori). “Trump parla sempre di deal. Negli ultimi tre mesi sembra abbia fatto anche l’accordo su TikTok. In realtà ci sono molti fronti aperti, con punti poco chiari e molti nodi da sciogliere. E anche per questo è sempre importante aspettare le dichiarazioni cinesi per avere conferma di quanto dice la Casa Bianca. Anche perché i cinesi di solito dicono una parola in meno piuttosto che una parola in più, sono molto rigorosi sulle dichiarazioni ufficiali”.

Dal punto di vista cinese, cosa è emerso da questo incontro?
Hanno confermato che Pechino sospenderà per un anno le limitazioni all’export delle terre rare e la Cina da ieri ha ricominciato ad acquistare la soia americana. Confermato anche che Trump andrà in Cina e molto probabilmente Xi andrà negli Stati Uniti. È chiara quindi l’intenzione di continuare a parlare, ma è anche vero che oggi sono state confermate le decisioni prese a Kuala Lumpur domenica (le misure includevano anche l’abbassamento da parte degli Stati Uniti dei cosiddetti “dazi sul fentanyl” del 10% e la sospensione, per un altro anno, dei dazi reciproci del 24% applicati alle merci cinesi, comprese quelle provenienti da Hong Kong e da Macao, ndr). In sostanza i binari su cui si muove la diplomazia sino-statunitense sono quelli che ha voluto la Cina.

Quindi è stata Pechino a decidere i termini degli accordi?
Trump ha questo suo modo molto personale, da businessman, di affrontare la diplomazia. Ma la Cina non gliel’ha lasciato fare. La Cina ha voluto i meeting a Ginevra, Madrid, a Kuala Lumpur, fissando un percorso diplomatico classico. Quindi non ha condiviso l’approccio del presidente Usa.

In che momento la Cina è riuscita a guadagnarsi una posizione di forza?
Trump ha lanciato il Liberation Day dei dazi contro tutti, ma penso non avesse messo in conto la reazione cinese, che si è imposta e ha rilanciato con ulteriori dazi agli Usa. Pensava che Pechino temesse di più la dipendenza dall’export verso gli Stati Uniti. Ma non è stato così. E si è organizzata tra il primo e il secondo mandato di Trump: se inizialmente è stata presa in contropiede, nel corso degli anni si è preparata, visto che anche Biden ha sposato la stessa politica della guerra commerciale. Dunque è arrivata pronta. E in più ha dalla sua parte la leva delle terre rare, che è molto potente e che sembra Trump non avesse preso in considerazione. Così come aveva sottovalutato la dipendenza dall’elettronica in generale: i dazi di Trump sull’elettronica di consumo sono stati subito ritirati dopo il lancio.

La Cina peraltro è stata l’unico Paese a rispondere occhio per occhio a Trump sui dazi.
Trump le ha dato l’occasione di farlo, concedendole così di essere un suo pari. Cosa che non era così con Biden. Di fatto Xi ha parlato di Cina e Usa come dei due Paesi che hanno la responsabilità di collaborare perché dal loro rapporto dipendono sostanzialmente gli affari del mondo. C’è il ritorno a una sorta di G2.

Cosa scrivono i media cinesi rispetto all’incontro Trump-Xi?
Finora hanno solo rilanciato le dichiarazioni ufficiali. Si può dire però che per la Cina sia stato un incontro positivo. In primis perché per la prima volta non si è parlato di Taiwan, che è la pietra dello scandalo dei rapporti tra Stati Uniti e Cina, che sul tema però resta intransigente. Il silenzio su questo punto ha permesso una finestra di dialogo serena, senza incrinature, malgrado la questione scottante.

Come definirebbe il clima di questo colloquio?
Direi che si è puntato alla de-escalation rispetto all’ultimo mese e mezzo, quando i toni si erano alzati da entrambe le parti. Ma questo non significa che le questioni siano risolte, che Cina e Stati Uniti non continueranno a sfidarsi apertamente. Anzi.

Chi è in vantaggio dei due?
La Cina: ha dalla sua il tempo. Stati Uniti invece hanno fretta: Trump ha bisogno di risultati perché ci sono la pressione dell’opinione pubblica e le elezioni di midterm nel 2026. Gli Stati Uniti hanno un leader in scadenza mentre Pechino, essendo un sistema autoritario, ha tempi lunghi e sa che la sfida è lunga. Quella con gli Stati Uniti è una maratona, non sono i cento metri.

Il clima positivo dell’ultimo incontro e la relazione di Trump con Pechino impatta sul rapporto tra Cina e Russia?
In nessun modo.

Binari separati?
Sì. Pechino non accetterebbe mai l’influenza degli Stati Uniti sul suo rapporto con Mosca, che oggi sono partner. C’è stato un momento in cui si parlava della strategia “Reverse Nixon” che Trump voleva mettere in atto per dividere la Cina dalla Russia (il riferimento è alla visita nel 1972 di Nixon in Cina in chiave antisovietica, per spaccare il blocco comunista, ndr). Ma è una mossa impossibile. In più, per la Cina, la Russia non può perdere: hanno in comune 4000 chilometri di confine e vuole una Russia stabile. Quindi, l’equilibrio ora è quello della guerra, con Putin al potere. In più questa situazione distrae gli Stati Uniti dalle tensioni per l’egemonia regionale in Asia Pacifico e anche dal dossier Taiwan.

Come sono da interpretare quindi gli inviti di Trump alla Cina affinché interceda per la risoluzione del conflitto in Ucraina?
È un wishful thinking, una cosa che Trump vorrebbe succedesse visto che vuole anche il Nobel per la pace. Ma, almeno nel breve periodo, non succederà. Non credo proprio che la Cina aiuterà l’Occidente, l’America e l’Europa.

Anche da Pechino, almeno ufficialmente, si sostengono il dialogo e la pace.
Sì, ma le dichiarazioni sono sempre le stesse da quando è cominciata la guerra. Cessate il fuoco, integrità e sovranità territoriale. Ma la Cina non si immischia, non si sporca le mani. È meno dritta di noi: si muove, ma lateralmente, in maniera molto più sotterranea, non è interventista. E c’è una grande differenza.

Quale?
Che la Cina non ha velleità di esportare il suo modello. Sa che funziona per sé. Certo, ha la volontà di influenzare geopoliticamente gli altri Paesi per poi avere per esempio voti favorevoli all’Onu, ad esempio per la questione di Taiwan. Però ha proprio un’altra modalità di approccio alle questioni geopolitiche e non si fa certo dettare la linea degli Usa. In più vive l’orgoglio di quello che è diventata: fino a 50 anni fa la popolazione moriva di fame, era un Paese di analfabeti e contadini e ora è diventata la seconda potenza mondiale, l’unica in grado di mettere in discussione la leadership americana nel mondo.

Quindi non ha interesse a dire a Putin di finire la guerra in Ucraina.
No, perché indebolisce l’Europa, così come la Russia. Il conflitto va a vantaggio di Pechino nel rapporto con Mosca. La Russia è vassallo della Cina. È sì una potenza nucleare ma a livello di geopolitica economica gioca in un altro campionato rispetto a Cina e Stati Uniti.

Quindi non c’è nessun impegno diplomatico per favorire la pace a Kiev?
Sicuramente ci sono dei tentativi, ma per la Cina non è vantaggioso infilarsi in un conflitto complicatissimo che non ha un finale chiaro. Al massimo potrebbe subentrare a negoziati avanzati, ma finché la situazione resterà così complessa se ne terrà proprio lontana. Tutte le potenze pensano ai loro tornaconti, e oggi tenere distratti Ue e Usa sull’Ucraina lo è. Restano comunque anche molte incognite su quello che farà Trump, visto che la politica dell’America First punta a defilarsi dalle guerre altrui. Del resto, un punto cruciale della sua campagna è stato dire agli americani che non vuole più spendere i loro soldi per risolvere i problemi degli altri.

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Il Fatto Quotidiano

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