“Come un immobiliarista in diplomazia: così il metodo Trump su Gaza ha funzionato”: il presidente Usa fa il pieno anche nel dibattito americano
- Postato il 14 ottobre 2025
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- Di Il Fatto Quotidiano
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“Potrebbe essere la cosa più importante in cui io sia mai stato coinvolto”. La modestia non è mai stata tra le qualità coltivate da Donald Trump e in queste ore il presidente Usa non ha certo intenzione di cambiare registro. L’intesa tra Israele e Hamas rappresenta in effetti il più significativo successo diplomatico della sua carriera, un evento dall’impatto mediatico persino maggiore rispetto agli Accordi di Abramo del 2020. È vero che sul futuro si addensano possibili nubi e che il trionfo di oggi potrebbe trasformarsi in una caduta domani. Ma è comunque indubbio che ciò che avviene in Medio Oriente è per Trump un trionfo, che lo rafforza politicamente e gli dà la possibilità di lanciare quello che lui stesso definisce un messaggio “di pace e amore per l’eternità” (nel momento, peraltro, in cui è pronto a mandare i soldati nelle città americane).
Su una cosa gran parte degli osservatori americani, anche di parte democratica, sembrano d’accordo. Il “metodo Trump” ha funzionato. Alcuni lo definiscono una sorta di “shock and awe”, una guerra lampo lanciata nei confronti del suo amico e alleato Benjamin Netanyahu. Per altri è stata una sorta di intelligente trasposizione in diplomazia delle sue tattiche da immobiliarista. Fatto sta, appunto, che il “metodo Trump” ha funzionato. La cosa non era scontata. L’arrivo del tycoon alla Casa Bianca, nel gennaio 2025, è stata segnata da una ripresa delle ostilità e da una piega del conflitto che sembravano andare decisamente a favore di Israele. Del resto, quello su cui Netanyahu e la destra israeliana puntavano era proprio il ritorno di Trump alla Casa Bianca. Per questo, per mesi, avevano resistito alle pressioni di Joe Biden. Al contrario del presidente democratico, che non ha mai potuto sopportare Netanyahu, Trump era invece l’alleato fedele che la destra israeliana conosceva, amava, di cui si fidava.
Inizialmente è andata proprio così. Trump ha accolto per ben quattro volte Netanyahu alla Casa Bianca. Ha chiesto che il processo per corruzione al primo ministro israeliano venisse cancellato. Si è opposto al riconoscimento dello Stato palestinese e ha anzi favoleggiato di una annessione di Gaza, trasformata in un resort dove lui e Netanyahu si sarebbero trovati a sorseggiare cocktail ai bordi di una piscina. Trump ha soprattutto bombardato i siti nucleari iraniani e lasciato mano praticamente libera all’esercito israeliano nella guerra a Hamas. Era, per il governo Netanyahu, la situazione ideale. Sono stati la bomba israeliana sulla residenza dei negoziatori di Hamas in Qatar, e il sogno di una possibile, definitiva espulsione dei palestinesi, a cambiare le carte in tavola. È lì, secondo molti osservatori USA, che Netanyahu avrebbe sbagliato. È lì che Trump avrebbe capito che la guerra di Netanyahu stava mettendo a rischio interessi molto più vasti – inclusi i suoi e quelli della sua famiglia (si pensi ai legami d’affari in Qatar del genero Jared Kushner).
Le sorti del conflitto sono dunque rapidamente cambiate. Netanyahu è stato costretto da Trump a pubbliche – e per lui umilianti – scuse con l’emiro del Qatar. Kushner è stato coinvolto a tempo pieno nei negoziati, insieme all’inviato Steve Witkoff. Trump, in particolare, avrebbe improvvisamente cambiato marcia, scegliendo una linea di condotta che chi ha fatto affari con lui conosce bene, ma che appunto non è tipica dei negoziati diplomatici. Tradizionalmente, il Dipartimento di Stato, e le varie cancellerie, procedono un passo dopo l’altro, definendo i confini sulle mappe, sciogliendo i nodi più difficili, arrivando quindi a un accordo finale e complessivo.
Trump, da immobiliarista, ha sempre scelto la strada opposta. Rivendicare la chiusura dell’affare e soltanto in un secondo momento lavorare sui dettagli. La stessa cosa è avvenuta con l’intesa tra Hamas e Israele. L’intesa è stata in fondo raggiunta solo sullo scambio tra ostaggi e prigionieri. Trump ha però subito parlato di “pace”, di fine del conflitto, trascurando tutto quello che in realtà resta sospeso. Hamas è davvero disponibile a consegnare le armi? Il governo israeliano accetta la possibilità di un futuro Stato palestinese? E che cosa succederà alla Cisgiordania? Sono questioni enormi, irrisolte, che però spariscono dalla conversazione, dove resta solo ciò che Trump vuole. La parola “pace”.
Negli Stati Uniti si discute molto in queste ore sulle tempistiche. Perché l’intesa è arrivata proprio ora? Le risposte sono molte. Ha sicuramente ragione il segretario di stato di Biden, Antony Blinken, quando dice “questo è un momento diverso, e l’amministrazione Trump ha potuto godere di condizioni che noi non avevamo”. In effetti, il 2025 è molto diverso dal 2024 e dagli ultimi mesi del 2023. Hamas è un’organizzazione ormai debole militarmente e isolata politicamente, privata del sostegno dei suoi tradizionali alleati e padrini: Iran, Hezbollah, gli Houthi. Inoltre, dopo due anni di bombardamenti, massacri, carestie, la popolazione di Gaza non ne può più e chiede a gran voce la fine del conflitto.
Le cose sono cambiate anche nell’altro campo. Netanyahu ha ottenuto gran parte di quello che militarmente e politicamente voleva. Andare avanti nel conflitto gli avrebbe però alienato buona parte dell’opinione pubblica israeliana, che voleva che gli ultimi ostaggi ancora in vita venissero portati a casa. Peraltro, Netanyahu ha potuto dire no a un presidente USA debole e al termine del suo mandato come Biden. Non poteva dire no – pena la sua fine politica – a Trump, cui deve tutto e di cui si conoscono gli umori piuttosto variabili.
Il 2025 non è, appunto, il 2024 e il 2023. Detto questo, il presidente Usa è stato capace di sfruttare con abilità le nuove condizioni e ha introdotto nei negoziati qualcosa di inedito per la diplomazia, qualcosa che appartiene alla sua storia e carattere e che ha sicuramente accelerato i negoziati. Peraltro, nell’esito finale, potrebbe aver contato un elemento ulteriore. La struttura diplomatica dell’amministrazione Trump è più esile ed accentrata rispetto al passato. Marco Rubio è segretario di stato ma anche, dopo l’allontanamento di Mike Waltz, consigliere alla sicurezza nazionale. Al Dipartimento di Stato è caduta la scure dei licenziamenti. Il National Security Council ha oggi 150 dipendenti – erano 350 a gennaio. Il corpo diplomatico americano è dunque più leggero, cosa che in certi frangenti – vedi le trattative per la fine della guerra in Ucraina e gli errori nella valutazione delle mosse di Vladimir Putin – è stata un limite, ma che in altre circostanze – appunto i negoziati su Gaza – ha reso più facili e veloci i processi decisionali.
Ci sono molte cose, appunto, che l’attuale intesa lascia fuori. Davanti alla Knesset, Trump ha citato il “Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe” e ha detto che “questa non è solo la fine della guerra, questa è la fine di un’età di terrore e di morte”. A meno di clamorose sorprese, non sarà così. Già le prossime settimane rappresentano un test importante per la tenuta del processo di pace. Il presidente Usa le può comunque affrontare con fiducia e ottimismo. Riaprire il conflitto avrebbe infatti pesanti controindicazioni, sia per Israele sia per Hamas. E Trump, in fondo, ha già ottenuto quello che voleva: il discorso da salvatore della patria davanti alla Knesset. I parenti degli ostaggi che invocano il suo nome in diretta TV. L’omaggio di occidentali e alleati arabi a Sharm El-Sheikh.
È una passerella trionfale che consolida il suo prestigio internazionale, da deal-maker – aprendo forse nuove prospettive per la guerra in Ucraina – e che sicuramente gli offre opportunità inedite anche all’interno degli Stati Uniti. A Washington si è ancora in attesa di un’intesa che ponga fine allo shutdown. Trump potrebbe voler rafforzare la sua immagine negoziale, arrivando a un accordo con i democratici. Sullo sfondo c’è poi la questione dell’Insurrection Act. Il presidente potrebbe rivendicare poteri emergenziali, e quindi mandare le truppe, denunciando una presunta insurrezione nelle città USA. Il “pacificatore universale” di Gaza si trasformerebbe allora in uomo di guerra. Sarebbe – forse sarà – un nuovo capitolo nella più singolare, sorprendente, drammatica presidenza della storia americana.
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