Come gli ambienti naturali fanno bene al corpo e all’anima

  • Postato il 12 ottobre 2024
  • Di Il Foglio
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Come gli ambienti naturali fanno bene al corpo e all’anima

In una vignetta umoristica di Maicol & Mirco uscita qualche tempo fa ci sono due personaggi che hanno tra loro un dialogo singolare: “E dove vai di bello?”, chiede il primo a quello con le valigie in mano. “Boh”, risponde questo, “si parte per allontanarsi da un posto, non per andare in un altro”. C’è da credere che il senso delle vacanze sia tutto qua: allontanarsi da ciò che si conosce non per andare alla ricerca del nuovo, ma solo per mettere in pausa la quotidianità, per aumentare la distanza tra sé e ciò che si vive da sempre. Nulla di male. E’ certo però che alcuni luoghi incontrano maggiori favori di altri. Secondo l’Istat, durante l’estate del 2023 i viaggi per visitare bellezze naturali sono stati pari al 57,5 per cento dei viaggi estivi. Inoltre, sul totale delle vacanze, il 49 per cento degli italiani ha scelto di trascorrere il proprio tempo libero al mare, il 25,4 per cento in montagna e il 14,3 per cento in campagna. Seppure la domanda possa apparire banale, verrebbe da chiedersi come mai. Perché gli ambienti naturali incontrano tanto favore? Certo, potrebbe dire qualcuno, vuoi mettere godere della brezza marina o del refrigerio dato dall’ombra di una pianta durante l’estate? Per non parlare del divertimento in inverno a scivolare con un paio di sci. Ma il divertimento e la piacevolezza sembrano essere, per così dire, solo degli epifenomeni di una questione ben più radicata nel nostro sviluppo di esseri umani che ci porta a beneficiare del tempo trascorso negli ambienti naturali.

E per capire come mai è bene partire dall’inizio, cioè da quando abbiamo iniziato a domandarci la ragione di questo fenomeno. Evitando di cominciare dalla Naturalis historia di Plinio il Vecchio, ma partendo invece dagli anni 50 del secolo scorso, quando si è sviluppato un filone di ricerca, a cavallo tra architettura e psicologia, che mirava a indagare il modo in cui le persone rispondevano alle proprietà fisico-spaziali degli ambienti. Una disciplina nata con il nome di “psicologia architettonica”, in seguito divenuta “ambientale”, che per prima ha cercato di comprendere il rapporto di reciproca influenza tra le persone e gli ambienti. Rapporto ben esplicitato dalle parole di Winston Churchill durante il discorso tenuto alla Camera dei Comuni il 28 ottobre 1943, a seguito dei bombardamenti tedeschi: “We shape our buildings, and afterwards our buildings shape us” (noi diamo forma ai nostri edifici e in seguito i nostri edifici danno forma a noi). Più chiaro di così.

I primi interessi della psicologia ambientale si sono rivolti alle aree residenziali, focalizzandosi sugli aspetti architettonico-urbanistici, socio-relazionali, funzionali e contestuali. Quante aree verdi ci sono in un quartiere? E quanto sono distanti tra loro gli edifici? Quale è il livello di socialità e di discrezione del vicinato? Cosa si sa riguardo alla qualità dei trasporti e dei servizi sociosanitari presenti nel quartiere? Il livello di manutenzione del bene pubblico è buono? E quale clima psicologico si respira passeggiando per strada? Sono queste alcune delle domande che gli addetti ai lavori si pongono per indagare il livello di soddisfazione residenziale, cioè il piacere di abitare in un posto specifico, per valutare il tipo di attaccamento al luogo di origine e in generale il livello di qualità di vita che i residenti percepiscono di avere.

Come si fa, viene da chiedersi, a non aver fiducia nel futuro se solo fino a pochi decenni fa, persino nelle città, mancavano i bagni all’interno delle case, mentre oggi siamo in grado di riconoscere e di valutare l’impatto delle aree verdi negli spazi urbani, l’intensità dell’illuminazione lungo le strade o il ruolo giocato dal colore delle pareti all’interno di strutture pubbliche come scuole e ospedali? 
A partire dagli anni Ottanta l’interesse della psicologia ambientale si è spostato dall’indagine delle aree costruite verso l’indagine di quelle naturali. Il lavoro più emblematico relativo a questo passaggio è rappresentato da uno studio eseguito nel 1984 da Roger S. Ulrich, attualmente professore di Architettura al Center for Healthcare Building Research presso la svedese Chalmers University of Technology.  Lo studio, pubblicato su Science, è intitolato View Through a Window May Influence Recovery from Surgery (“La vista attraverso una finestra può influenzare il recupero da un intervento chirurgico”).

Dal 1972 al 1981, un campione di quarantasei pazienti operati di colecistectomia è stato suddiviso in due gruppi, entrambi costituiti da ventitré persone. In un gruppo i pazienti venivano ricoverati in stanze con vista su degli alberi mentre nell’altro venivano ricoverati in stanze con vista su un semplice muro di mattoni. Durante questi anni lo studio ha preso in esame solo le persone che potevano essere ricoverate tra il primo maggio e il venti di ottobre, dato che solo in questo periodo gli alberi avevano le foglie. Sorprendentemente, coloro che dalla proprio stanza riuscivano a vederne le chiome, a differenza di coloro che invece si affacciavano sul muro “hanno avuto ricoveri ospedalieri post operatori più brevi, hanno ricevuto meno commenti di valutazione negativi da parte degli infermieri (qui ci si riferisce a commenti di tipo medico, come quelli relativi al dolore), hanno assunto meno dosi di analgesici moderati e forti e hanno avuto punteggi leggermente inferiori per complicazioni post operatorie minori”. In sostanza, chi aveva la possibilità di vedere gli alberi guariva meglio e prima.

Ciò nonostante, è giusto ricordare che questi risultati non possono essere estesi a tutti i tipi di “paesaggi costruiti”. Chi può dire che un affaccio sulla cupola di San Pietro, santità a parte, non produca effetti simili se non migliori rispetto all’affaccio alberato? Il fatto, però, è che la capacità rigenerante di un luogo naturale, la così detta restorativeness (rigeneratività), è ben documentata. Nell’ultimo decennio, infatti, molti studi hanno registrato la diminuzione di parametri fisiologici fortemente associati allo stress – come il cortisolo – in persone immerse in contesti naturali. Ecco, dunque, che negli anni Novanta la psicologia ambientale sviluppa una nuova branca: l’ecopsicologia, una disciplina che si concentra principalmente sull’indagine del rapporto umano-ambienti naturali.

Secondo una revisione della letteratura del 2021 scritta da ricercatori appartenenti a diversi dipartimenti dell’Università di Harvard, i benefici degli ambienti naturali sulle persone sarebbero tutt’altro che trascurabili. Infatti, analizzando i risultati di studi recenti – eseguiti tra il 2010 e il 2020 – questi ricercatori hanno trovato “prove di associazioni tra esposizione alla natura e miglioramento delle funzioni cognitive, dell’attività cerebrale, della pressione sanguigna, della salute mentale, dell’attività fisica e del sonno.” Questi miglioramenti sarebbero dovuti, da un lato, alla possibilità offerta dagli spazi naturali di diminuire la fatica mentale associata alla vita moderna, dall’altro, alla capacità della natura di attivare il nostro sistema nervoso parasimpatico – attivo in situazioni di quiete e riposo – permettendoci così di ridurre i livelli di eccitazione “grazie alla connessione innata delle persone con il mondo naturale”. Inoltre, i benefici offerti riguarderebbero anche le malattie cardiovascolari, il diabete e i disturbi cronici. Giovamenti simili sarebbero riscontrabili anche tra coloro che vivono in prossimità di ambienti acquatici, i cosiddetti “spazi blu”.  Che si tratti di mare, lago o fiume non ha importanza. Sarebbe la vista e la presenza dell’acqua a determinare un migliore stato di salute, anche qui, tanto psicologica quanto fisica.

Ecco, dunque, come l’ambizione di avere uno chalet in montagna, una casa in collina o in riva al mare si trasforma da meschina aspirazione capitalistica, da ennesimo intrattenimento costoso e poco goduto, a desiderio benefico e necessario.

Un interessante e noto studio giapponese e americano pubblicato nel 2007 e intitolato Forest bathing enhances human Natural Killer activity and expression of anti-cancer proteins (“Il bagno di foresta migliora l’attività dei Natural Killer umani e l’espressione delle proteine anti cancro”), ha investigato l’effetto sul sistema immunitario di una immersione di alcuni giorni in un contesto forestale. Un campione di dodici uomini che non presentavano patologie è stato selezionato per trascorrere tre giorni e due notti nella foresta, alloggiando in un albergo durante la notte e camminando tra gli alberi per alcune ore durante il giorno. Uno dei parametri fisiologici registrati era la presenza delle cellule Natural Killer, cioè un particolare tipo di globuli bianchi, deputati alla difesa dell’organismo e in grado di eliminare anche le cellule cancerogene. La loro percentuale veniva rilevata alcuni giorni prima che il campione di persone si recasse nella foresta, durante la sua permanenza e alcuni giorni dopo, una volta tornati alle loro vite. Secondo lo studio il tempo trascorso nella foresta era associato positivamente all’incremento e all’attività del sistema immunitario, dato che “quasi tutti i soggetti (undici su dodici) hanno mostrato un’attività delle Natural Killer più elevata dopo il viaggio (circa il 50 per cento in più) rispetto a prima”. Inoltre, questo effetto positivo sul sistema immunitario persisteva fino a trenta giorni dopo il bagno di foresta. Un effetto che si assocerebbe all’azione dei fitoncidi, dei composti organici volatili prodotti dagli alberi e dalle piante a scopo difensivo e presenti in gran quantità nei boschi e nelle foreste.

Stefano Mancuso – botanico e professore dell’Università di Firenze – ipotizza che questo genere di risposte fisiologiche, scaturite quando si è circondati da alberi, siano dovute a un vero e proprio vissuto di “ritorno a casa”. Proprio perché è lì, all’interno di boschi e foreste, che siamo vissuti e ci siamo sviluppati per migliaia di anni. Infatti, a ben guardare, quando la tubercolosi era ancora diffusa nell’ Europa del Diciannovesimo secolo, i sanatori si trovavano in mezzo alla natura. Sulle vette delle montagne e circondati da boschi e foreste. Ed è proprio Hans Castorp, l’ospite protagonista del più importante sanatorio letterario d’Europa, quello ideato da Thomas Mann ne “La montagna incantata”, che avventurandosi nella foresta innevata ha un’esperienza tanto introspettiva da essere quasi mistica. Perché se il mare rappresenta la scoperta e l’avvenire, la montagna il ritorno alle origini e alla tradizione, la foresta di certo simboleggia l’interiorità. Anche per questo, forse, in boschi e foreste “ci si avventura”, perché quando cammini dentro te stesso non sai mai cosa puoi incontrare.

Un vissuto, questo, che sul piano evolutivo suggerisce un parallelismo con l’esperienza dei nostri progenitori cacciatori-raccoglitori in cerca di cibo, ipotizzata da Paul Shepard nel libro “Natura e follia” (pubblicato in Italia nel 2020 da Edizioni degli animali). Perché se nei villaggi la maggior parte dei suoni erano attesi, quasi non essendoci animali, piante o persone ignoti, nella foresta esistevano “un milione di lingue segrete” che il cacciatore doveva saper cogliere grazie a un diverso tipo di attenzione se voleva trovare del cibo ed evitare i pericoli.

Ecco, in sostanza, un altro esempio del modo in cui l’esperienza interiore si modella in base al contesto fisico in cui ci si trova.

Al di là che si tratti di uno spazio naturale o costruito, la psicologia ambientale ci invita a considerare l’ambiente non solo come uno sfondo passivo delle nostre vite, ma come un elemento dinamico e influente di cui è bene imparare a conoscerne le caratteristiche. E, si potrebbe dire, ci suggerisce di promuoverne le migliori, le più belle e le più efficaci. Più che per salvare l’ambiente, per aiutare noi stessi, dato che dall’ambiente che ci circonda dipendiamo così tanto.

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Il Foglio

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