Come evitare la banalizzazione nello sport. Intervista ad Andrea Zorzi

  • Postato il 14 dicembre 2024
  • Di Il Foglio
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Come evitare la banalizzazione nello sport. Intervista ad Andrea Zorzi

C’è un che di ironico nel voler ritornare quando s’è fatto ormai autunno. Soprattutto quando l’autunno di una carriera si era trasformato in inverno con un addio. Stare lontani da quello che si è considerato a lungo, quasi per una vita intera, il nostro mondo è complesso e, a volte, la voglia di dimostrare a se stessi di poter essere ancora protagonisti ritorna impellente. È accaduto a Lindsey Vonn, che ritornerà a sciare in Coppa del mondo dopo essere stata la migliore. È accaduto ad Anna van der Breggen, di nuovo in bicicletta a inseguire ancora una vittoria pedalando dopo aver conquistato tutto il conquistabile, salvo il Tour de France femminile, ma solo perché non c’era. È accaduto a tanti, grandi campioni o solo ottimi mestieranti. Accadrà ad altri. 

 

Non è capitato ad Andrea Zorzi, uno dei più forti opposti della storia della pallavolo, protagonista di quella (forse) irripetibile Nazionale italiana capace di vincere tantissimo, quasi tutto. Si ritirò nel 1998. Aveva trentatré anni. Presto. Nel momento giusto però, almeno a suo avviso. “Mi ero reso conto che non avevo più la forza per restare totalmente concentrato sulla pallavolo, cosa che avevo fatto con una certa facilità fino a quel momento”, dice Andrea Zorzi al Foglio sportivo.

 

La testa, non il fisico gli fece dire addio. “Negli ultimi anni di carriera mi ero accorto di essere cambiato: era come se le sconfitte si fossero trasformate in ferite difficilmente rimarginabili. E avevo iniziato a dare per scontate le vittorie. Si era rotto qualcosa. Decisi di lasciare, anche perché avevo la possibilità di scegliere”. Lo fece senza ripensamenti.

 

Lo spirito competitivo che lo aveva accompagnato e che aveva affinato sotto rete lo ha mantenuto fuori. Ha ricostruito “con calma e pazienza, perché quando si cambia radicalmente la propria vita ci si deve dare tempo per rielaborare quanto accaduto, prendere atto degli inevitabili cambiamenti e di quello che forse avevamo dato per scontato”.

 

Andrea Zorzi la pallavolo l’aveva incontrata a sedici anni, “per caso”. L’aveva scelta certo, ma non per passione, per necessità. “Ero molto alto, troppo alto per i miei gusti. Mi sentivo a disagio con la mia altezza. Il prof di educazione fisica del liceo Classico che frequentavo mi disse che avrei potuto fare sport anche se ero così alto. C’era il basket, c’era la pallavolo, c’erano anche altri sport che poteva fare una persona alta. Mi disse di muovermi, di decidere. Scelsi la pallavolo perché la palestra era più vicina a casa mia rispetto a quella del basket. Iniziò tutto così, per vicinanza”. Sotto rete riuscì a non sentirsi diverso. “Fu quello che mi fece andare avanti. All’inizio non ero forte, piano piano imparai”. Nemmeno troppo piano. A 20 anni giocava già in A1. A 21 in Nazionale. “Non pensavo all’epoca di poter diventare un campione. La pallavolo era più che altro qualcosa che mi aiutava a tenere a bada la preoccupazione per la mia altezza”.

 

Lo sport, dice Andrea Zorzi, “lo sport in generale, l’insieme di tutte le discipline insomma, è ciò che di più inclusivo possa esistere. Non conta la differenza di provenienza, di stato sociale, sono irrilevanti le differenze religiose, culturali, fisiche. Ci sono discipline sportive per gente alta e per gente bassa, per gente veloce e per gente resistente, per gente muscolosa e per gente secca. Qualsiasi sia la tua altezza o peso, le tue caratteristiche fisiche, puoi trovare uno sport nel quale ti puoi sentire accettato e puoi provare a dare il meglio”. È un’occasione, per tutti. “Nello sport però esiste anche una dimensione competitiva che non può e non deve essere messa in secondo piano. Se lo sport è inclusivo, le varie discipline non lo possono essere fino in fondo, non possono che essere selettive”, spiega Andrea Zorzi. “Per garantire l’equità della competizione, occorre selezionare i partecipanti. Ed è questo il punto sul quale ci dobbiamo interrogare: ci può essere qualcosa al tempo stesso inclusivo e selettivo? Sì e no. Sì, se lo sport lo si considera un gioco e un gioco soltanto. No, se si considera la sua componente agonistica. Una squadra che gioca ad altissimo livello non ha scelta, non può che essere selettiva, non può che selezionare i migliori atleti. E tutto ciò è legittimo, è obbligata alla scelta, alla selezione”.

 

Il problema è che troppo spesso quando si parla di inclusione e inclusività nello sport si tende a metterlo in opposizione al concetto di discriminazione e non invece, come dovrebbe essere, a quello di selezione. Si può selezionare, si deve selezionare, senza per forza discriminare. Un errore compiuto spesso anche dallo stesso sport professionistico. “Se lo sport professionistico vuole essere davvero inclusivo dovrebbe allargare le maglie del regolamento e rendere meno selettiva e meno performativa qualsiasi disciplina. Io credo che lo sport non debba tradire la sua natura competitiva, non credo debba cambiare le sue regole, soprattutto la sua natura e missione, quella di stabilire un primo, un secondo, un terzo e via così. Cambiare questo vuol dire negare la competizione. E lo sport non può sfuggire da questo, deve incentivare una competizione onesta, nella quale si può vincere o perdere, ma con rispetto, consapevole del fatto che chi si affronta si batterà sì ad armi pari e con regole chiare, ma con caratteristiche diverse perché ad affrontarsi ci sono donne e uomini che hanno abilità diverse. E tutto questo, che poi altro non è che la bellezza dello sport, fa sì che lo sport, quello professionistico almeno, difficilmente può essere un efficace veicolo di un valore come l’inclusività”.

  

C’è un po’ troppa retorica attorno allo sport. Ci sono troppi tentativi di renderlo altro da quello che è. A volte sembra che lo sport sia quasi uno sfogatoio, che su di esso coli tutto ciò che società e istituzioni vorrebbero fare, ma non riescono a realizzare. “Credo che noi sportivi, con i vari ruoli che abbiamo, dovremmo essere sinceri con noi stessi e chiederci: ‘Quali sono i valori di cui siamo portatori?’. Io penso che essere portatori di un onesto, legittimo, trasparente modello di selettività non è cosa da poco, è una bella cosa. Dire che non si può fare tutto, che non siamo tutti uguali, e questo significa non che io valgo più di te, semplicemente che sono passato attraverso inevitabili criteri di selezione. Dovremmo noi per primi scansare la banalità di considerare lo sport come modello di vita in assoluto. Dovremmo evitare di continuare a dire che lo sport fa bene in ogni caso. Perché non è così. Dipende. Lo sport in alcuni casi è una meravigliosa occasione per aiutarci a stare bene e per aiutare a far stare bene gli altri. Qualche volta però può diventare motivo di discriminazione, di tensione, di preoccupazione, come tutti gli ambienti. È fatto di luci e di ombre. E non c’è niente di strano in tutto questo”.

 

Superare l’adolescenza vuol dire anche smetterla di vedere le cose in modo binario, suddividere ciò che viviamo nelle categorie “buono” e “cattivo”. Attorno allo sport spesso, troppo spesso, si continua a ragionare da adolescenti. Servirebbe abbracciare la maturità, prima che l’adolescenza possa immergersi nella nebbia della quarta età senza aver raggiunto una necessaria consapevolezza della complessità di ciò che ci sta attorno. Prima che l’autunno si faccia gelido inverno. 

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Autore
Il Foglio

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