Come capire se le mostre d’arte valgono il prezzo del biglietto: dalle luci alle didascalie, ecco i “segreti” riconoscere una mostra ben fatta

  • Postato il 23 novembre 2024
  • Cultura
  • Di Il Fatto Quotidiano
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Per tutti i musei d’Italia, o comunque per tutti i luoghi dove si organizzano mostre, è iniziata la bassa stagione. Non si protrarrà a lungo perché già dall’8 dicembre inizierà il periodo pre-natalizio quando gli amanti dell’arte ricominceranno pian piano a scegliere quali mostre d’arte andare a visitare per poi giungere a primavera quando il turismo familiare e scolastico si sommerà per ridare il via a un’altra stagione da “tutto esaurito“, almeno così sperano gli organizzatori. Quindi adesso è il momento buono per alcune riflessioni “a bocce ferme”, come si suol dire. Senza entrare nei meandri di museologia e museografia, si possono analizzare i principali criteri per poter giudicare se una mostra è fatta bene o se al prezzo del biglietto appena pagato potrebbe non corrispondere l’attesa soddisfazione.

Mostre di dipinti, di scultura e di documenti hanno necessità diverse di allestimento, così come una mostra può essere destinata principalmente a un pubblico variegato oppure a visitatori più “motivati”, magari studiosi che attendono proprio quell’occasione per vedere da vicino un’opera che arriva in prestito da un museo lontano e non facilmente raggiungibile, come quando la Natività mistica di Botticelli fu ammirata a Palazzo Strozzi di Firenze nel 2004, concessa dalla londinese National Gallery, l’emozionante Natività di Federico Barocci proveniente dal Prado di Madrid e ammirata di recente nell’antologica di Urbino oppure quando All’ovile, il grande dipinto di Giovanni Segantini è stato mostrato nella grande sala a luce naturale del museo intitolato proprio al maestro del divisionismo, a Saint Moritz, in Svizzera.

Oggi si tende a “trasformare” la visita a una mostra in un’esperienza emozionale, “figlia” soprattutto dell’aspettativa che marketing ed eventuale passaparola di chi l’ha già vista, hanno generato nel visitatore. Chi visita una mostra di artisti impressionisti ha già un’idea di ciò che l’aspetta, un po’ meno chi si trova di fronte teche piene di oggetti provenienti da scavi archeologici d’epoca romana. Per cui conta molto anche ciò che il visitatore un po’ si aspetta, soprattutto per non rimanere delusi.

Tuttavia una mostra può essere considerata interessante – anche se non bellissima o emozionante come una passeggiata tra grandi sculture romane “mischiate” a una serie di disegni di Picasso come accaduto qualche tempo fa al Museo Archeologico Nazionale di Napoli – se propone opere inedite, poco o mai viste prima; ad esempio la piccole mostre che talvolta gli stessi musei italiani organizzano nel periodo delle feste natalizie e di fine e inizio anno con dipinti o sculture provenienti dai propri depositi, dovrebbero far gola a chiunque, perché trattasi di materiali che, una volta finita la mostra, chissà quando torneranno a farsi ammirare.

Ci sono poi le mostre personali, cioè di opere di un solo autore che possono interessare sia il grande pubblico così come quello degli studiosi che hanno l’opportunità di un a full immersion nella produzione di artisti di cui, altrimenti, si ammirano solo poche opere.

Sfruttando artisti e generi gettonatissimi – come i vari Klimt, Frida Kahlo, Artemisia Gentileschi, Van Gogh, l’insieme dei Macchiaioli, così come Andy Warhol e un po’ tutta la galassia impressionista, insomma tutti parecchio di moda – il rischio è di rimanere un poco delusi perché si tratta di opere già viste oppure, come nel caso di Caravaggio e dei caravaggeschi (artisti che si sono ispirati all’opera del famoso artista lombardo), ci si può imbattere in mostre che utilizzano lo specchietto per le allodole del nome altisonante, ma poi all’interno il visitatore trova un solo capolavoro del Merisi su una trentina di quadri in mostra. In questo caso il passaparola diventa uno strumento utilissimo, perché certi criteri hanno poco a che fare con il gusto personale, bensì molto di più con la realtà delle cose.

Selfie
Allora quali sono i parametri per capire se una mostra può definirsi soddisfacente o meno? Cominciamo da una situazione che riguarda qualsiasi tipo di mostra: i cartellini con le didascalie. Facciamo un passo indietro di qualche millennio. Dal maialino dipinto in una grotta dell’isola di Sulawesi, in Indonesia, oltre 45mila anni fa, dalle 6mila figure di animali e di umani scoperte nel 1940 nella grotta di Lascaux, in Francia e risalenti a oltre 17mila anni fa, l’uomo ha sempre cercato di raccontare se stesso, ciò che vedeva o che immaginava tracciando dei segni su una superficie. Come ben spiegava Giorgio Vasari nella seconda metà del XVI secolo “…il disegno, padre delle tre arti nostre, architettura, scultura e pittura, procedendo dall’intelletto, cava di molte cose un giudizio universale, simile a una forma o vero idea di tutte le cose della natura, la quale è singolarissima nelle sue misure, di qui è che non solo nei corpi umani e degl’animali, ma nelle piante ancora, e nelle fabriche e sculture e pitture cognosce la proporzione che ha il tutto con le parti, e che hanno le parti fra loro e col tutto insieme”. Praticamente il disegno è l’origine di ogni forma di arte, ma è anche un messaggio che va compreso, capito, altrimenti lo sforzo è fine a se stesso. E se l’arte non impatta subito la coscienza di chi la guarda allora va spiegata, e non a caso oggi il cosiddetto storytelling è lo strumento sempre più importante per una mostra.

Istruzioni per l’uso
Come lo sono, appunto, i cartellini che devono corredare ogni opera in mostra. Su di esso vi devono essere delle informazioni basilari: autore, titolo, materiali e tecnica di realizzazione, periodo temporale in cui è stata realizzata, luogo, città e paese di provenienza, dati identificativi della collezione cui appartiene e un po’ di storia dell’opera, per la quale talvolta si può ricorrere a un utile codice QR. Ma non basta. Il cartellino deve essere compilato con caratteri non filiformi, cioè non corsivo, ma stampatello maiuscolo e minuscolo e un corpo ben visibile anche da chi ha perso qualche diottria; inoltre il cartellino deve stare vicino all’opera cui si riferisce, scritto scuro su fondo chiaro, o al contrario (i cartoncini o i caratteri colorati complicano solo la lettura) e in una posizione comoda per la lettura, cioè ad altezza degli occhi e non delle ginocchia. Insomma se visitando una mostra notate qualcuno che legge il cartellino didascalico di un’opera d’arte con l’ausilio della torcia del proprio telefono cellulare significa che quella mostra è allestita in maniera non corretta.

Luce in sala!
Per ogni mostra di pittura, scultura o documentaria, un altro aspetto fondamentale è l’illuminazione, in particolare la posizione della fonte e l’intensità. Per i dipinti occorre non creare riflessi sugli eventuali vetri protettivi o sui manti pittorici, per le sculture bisogna evitare che le ombre impediscano una corretta lettura d’insieme dell’opera. Per i documenti, soprattutto quelli cartacei, la luce può essere dannosa, quindi avremo luci dirette, ma meno intense.

Per le sculture sarà importante poterle ammirare a 360 gradi, cioè anche nella parte posteriore, che l’artista ha comunque realizzato durando tanta fatica e che il visitatore ha diritto di ammirare. Per i documenti o per i piccoli mosaici, talvolta è consigliabile l’utilizzo di grandi lenti d’ingrandimento, che permettono di scoprire particolari altrimenti invisibili.

In ogni caso, eventuali opere inedite presenti in mostra andrebbero dichiarate, per dar modo a tutti di poter avere un’informazione precisa ed esaustiva su ciò che sta ammirando. E alla fine, è sempre bene ricordarlo, quando una mostra chiude, ciò che resta dell’idea e della realizzazione espositiva è il catalogo, cioè la testimonianza di un’impresa che ci ha reso più ricchi nella conoscenza. Se avremo apprezzato l’esposizione, l’acquisto del catalogo sarà un piacere e la ricorderemo più facilmente. Altrimenti un coffee table book in sala fa sempre fino.

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Il Fatto Quotidiano

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