Come ammazzare una tendenza su TikTok
- Postato il 19 giugno 2025
- Di Il Foglio
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Come ammazzare una tendenza su TikTok
Le riviste di moda a grande diffusione hanno dedicato da sempre, cioè fin dagli albori dell’editoria, uno spazio alle proposte più convenienti, consigli per outfit ispirati a quelli visti in passerella e ricreati con una spesa contenuta: si trattava, allora come oggi, di pagine collocate in apertura o in chiusura della pubblicazione, senza un confronto diretto con “gli originali” più costosi, lontane dal “cuore” della testata, lo spazio dedicato ai redazionali importanti.
Online la situazione è diversa, per di più la capacità di spesa ridotta di molti è diventata un fattore non trascurabile e su Instagram, TikTok e blog a tema proliferano gli account dedicati alla “moda accessibile”. Il prezzo alto o altissimo della moda è un dato di fatto, e la ricerca di strade alternative una necessità, anche se questo porta a selezionare prodotti del vituperato fast fashion. Non si tratta proprio di una contraddizione in termini – la convenienza del fast fashion è indiscutibile – piuttosto di una trasgressione rispetto al mantra del “compra meno - compra meglio” (cioè quasi sempre più costoso) promosso su altre pagine e schermate. Ma comprare meno e con un occhio alla qualità è una volontà difficile da soddisfare, se, oltre alle necessità di budget ridotto, il confronto tra capi di diversa provenienza e lignaggio dà esiti a volte sconcertanti. Il trend social della comparazione, con vere e proprie “challenge”, sfide, per scoprire quale tra due o più abiti simili sia effettivamente il più costoso è molto forte e macina like. Per esempio, i profili Instagram e TikTok di Eliza May (eliza.co.uk) hanno portato il format del confronto nelle strade, sollecitando nelle passanti l’esame e la stima dei capi.
La conclusione sottintesa già nelle intenzioni si verifica puntualmente: confusione ed errore di valutazione da parte del pubblico giocano a sfavore dei capi più costosi, molto ridimensionati nell’immagine di pregio che dovrebbero suggerire. E non tutto è imputabile al taglio delle sequenze dei reel o all’ingenuità di alcune delle interpellate, quanto piuttosto a una ricerca puntigliosa delle affinità di immagine. Elisa May, in realtà un team di “ragazze di fiducia (go-to girls) per la moda low budget” (cit.), è un blog con account social che promuove l'acquisto di capi a costi contenuti, pur segnalando i link per l’acquisto di quelli più costosi. Nulla di diverso, quindi, dal lavoro di promoter e influencer tradizionali, ma il confronto diretto a partire da una similitudine d’immagine è un elemento narrativo che introduce delle sfumature critiche e insinua il dubbio di una qualità dichiarata ma non reale dei capi “premium” e di design. Attraverso le pagine del blog stesso si può decidere di investire comunque in una camicia Proenza Schouler, in una gonna Staud o in un abito Jacquemus, ma la perplessità resta, e si amplifica via rete social. Per quanto gli schermi di telefoni e tablet siano un limite che non permette di valutare la qualità di materiali, orli e cuciture (che, peraltro, la gente stenta comunque a capire, non essendo in genere mai entrata in una vera sartoria), e se per gli accessori è più facile cogliere perfino online la differenza tra il pregiato e il dozzinale, per l'abbigliamento è spesso veramente difficile attribuire un valore a un prodotto.
Anche per chi quotidianamente lavora con tessuti, filati e prototipi. Il format dunque ha successo, gli account e le challenge si moltiplicano e la sensazione che se ne ricava è quella di una svalutazione generale del prodotto moda, di un mare magnum di capi tra i quali le differenze sono labili, e la qualità, come pure il design e il processo creativo a monte, sembrano solo pretesti tanto utili alla comunicazione quanto carenti di valore aggiunto. Generalizzare non è mai un bene, la moda social del gioco comparativo non intacca veramente la qualità intrinseca dell’alto artigianato e della confezione industriale più accurata, tuttavia toglie effettivamente un velo di ipocrisia su certe “manifatture veloci”, prodotti senza nessun particolare valore di materiale o di design se non quello dell'etichetta che vi viene apposta e che per motivi di posizionamento mantiene comunque prezzi al pubblico elevati: lo si può verificare quotidianamente, se non proprio nelle boutique di alta gamma ovunque il brand possa fungere da richiamo.
I prezzi schizzati alle stelle per strategie di marketing e per l’aumento del costo delle materie prime e dei processi distributivi (un serio problema che tocca da vicino tanti marchi medio-alti) scavano un solco sempre più profondo tra la clientela potenziale e l’acquisto effettivo: è difficile tornare indietro, ma è evidente che se continuerà a diffondersi la sfiducia verso una qualità percepita solo come apparenza è facile prevedere un futuro nel quale per molti mercati (e l’Europa per prima) la moda sia esclusivamente fonte di ispirazione, generatore di outfit o figurine da riprodurre senza rimpianti.
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