Cina in vigile attesa sull’Ucraina: ecco il ruolo che può avere nelle trattative di pace. E Putin la vuole come garante

  • Postato il 23 agosto 2025
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Il triangolo no. Anzi, ni. Non è più da escludere che nel dialogo tra Donald Trump e Vladimir Putin si inserisca anche la Cina. Rimandate le tariffe, i rapporti con Washington sono più distesi, e “l’amicizia senza limiti” con la Russia rende Pechino un interlocutore privilegiato nel difficile raggiungimento di una tregua con l’Ucraina. Tutto ruota intorno alle garanzie richieste da Kiev in caso di cessate il fuoco. Nonostante le pressioni di Trump e l’apertura a protezioni “simili all’articolo 5 della Nato”, non sono stati ancora definiti né il perimetro né le modalità delle eventuali misure. Sappiamo solo che gli Stati Uniti hanno escluso l’invio delle proprie truppe in Ucraina, lasciando l’onere agli alleati europei. Ma l’impegno a lavorare a una “forza di rassicurazione” da schierare in caso di cessazione delle ostilità si scontra con le debolezze politiche ed economiche di alcuni paesi chiave. La Germania ha segnalato la mancanza di personale e capacità operative.

È qui che potrebbe entrare in gioco la Cina. D’altronde, Putin lo ha detto chiaramente: niente truppe Nato in Ucraina. Secondo Axios, invece, il capo del Cremlino avrebbe espressamente chiesto di coinvolgere Pechino come garante. Posizione confermata dal ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov, che in proposito ha ricordato come questa opzione fosse già presente nell’accordo redatto a Istanbul “all’inizio dell’operazione militare speciale”. L’idea è stata scartata da Volodymyr Zelensky, diventato negli ultimi mesi più esplicito nel puntare il dito contro il supporto economico (e indirettamente militare) fornito dalla Cina a Mosca. Ma il presidente ucraino potrebbe dover accettare un compromesso, soprattutto qualora l’idea di passare la patata bollente a Pechino fosse approvata da Trump, la cui priorità è tenere gli Stati Uniti fuori dal pantano europeo.

E la Cina? Finora la Repubblica popolare ha mantenuto una posizione piuttosto defilata da un conflitto che non reputa riguardarla direttamente. Dopo una prima personale proposta di pace in dieci punti, Pechino ha optato per un’iniziativa corale, con il Brasile e altri paesi del Sud globale, che ignora le richieste territoriali di Kiev limitandosi a proporre una conferenza di pace e colloqui diretti tra le parti in guerra. Una postura attendista ribadita giorni fa dal ministero degli Esteri cinese: “Accogliamo con favore tutti gli sforzi per trovare una soluzione pacifica alla crisi e i contatti tra Stati Uniti e Russia”.

Eppure le interlocuzioni tra Trump e Putin riguardano anche la Cina. Non tanto per via del presunto “effetto Nixon al contrario” predetto da alcuni analisti: la partnership strategica tra Mosca e Pechino difficilmente verrà minacciata dalle trattative con l’inaffidabile Taco-Trump (sigla per “Trump always chickens out”, un acronimo giornalistico per sottolineare la volatilità delle posizioni del tycoon, ndr). Certo, non è escluso che la Russia potrebbe sentirsi incoraggiata dalle aperture di The Donald a prendere una distanza di sicurezza: d’altronde nei tre anni di guerra la Cina non ha mancato di sfruttare la debolezza del momento per spremere l’economia della Federazione e stringere il guinzaglio intorno al collo dell’amico Vladimir. Ma oltre la Muraglia è un’altra l’eventualità ad agitare il sonno dei leader: un’ipotetica estensione ai teatri di crisi asiatici dell’articolo 5, il principio Nato secondo cui un attacco armato contro qualsiasi membro dell’alleanza giustifica l’uso della forza in risposta. Negli ultimi anni lo Stretto di Taiwan e le acque contese del mar Cinese meridionale hanno già visto un inusuale presenza delle marine europee.

Non tutto però va contro gli interessi di Pechino. I termini abbozzati da Trump e Putin (ovvero il riconoscimento dei territori occupati dalla Russia) soddisfano la leadership cinese, che fin dapprincipio ha auspicato la fine della guerra, purché l’epilogo veda Mosca vincitrice e non sconfitta. Infiacchita quanto basta a rafforzare il controllo cinese su alcuni settori critici, ma non umiliata al punto da perdere valore come partner strategico. La fine dei combattimenti gioverebbe alle relazioni con l’Europa, dove l’ambiguità cinese viene letta come un endorsement all’invasione russa.

Peraltro, l’ipotesi di una soluzione della guerra con l’accettazione delle perdite territoriali e politiche da parte di Kiev potrebbe fornire un precedente per le rivendicazioni di Pechino sulla sovranità di Taiwan. Più in generale verrebbe messa in dubbio la determinazione di Washington a proteggere gli altri alleati americani nell’Asia-Pacifico, molti dei quali coinvolti in contenziosi territoriali con la Repubblica popolare. Nell’immediato Pechino può intanto già incassare un primo risultato: il summit Trump-Putin in Alaska ha rimandato l’imposizione di sanzioni secondarie che metterebbero a repentaglio le forniture energetiche della Cina.

Difficile dire se queste dinamiche saranno un incentivo o un freno per una partecipazione del gigante asiatico nelle operazioni di peacekeeping in Ucraina. Pechino per tradizione non ama ingerire negli affari interni degli altri paesi. L’ipotesi più praticabile vedrebbe l’inclusione della Cina in un contingente di caschi Onu, di cui è il secondo maggiore finanziatore. Scenario che però richiederebbe una risoluzione del Consiglio di Sicurezza e lunghi negoziati tra i potenziali membri partecipanti. Verrebbero così offerte garanzie in termini di diritto internazionale, ma poco rassicuranti per Zelensky che ha escluso di voler accogliere “garanti che non aiutano l’Ucraina”.

È più possibilista Henry Huiyao Wang, presidente del think tank Center for China and Globalization. Secondo quanto scrive l’esperto su Foreign Policy, come primo partner commerciale tanto di Mosca quanto di Kiev, Pechino, ha tutte le carte per guidare la distensione: potrebbe convocare un vertice tra Ucraina, Russia, Stati Uniti ed Europa, con l’obiettivo di creare un quadro formale per “colloqui a sette”, composto dai cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza, più l’Ucraina e i rappresentanti Ue.

Per farlo occorre però mettere la palla al centro: cominciando con “un cessate il fuoco” (inviso alla Russia) e procrastinando il nodo delle rivendicazioni territoriali, che tanto preme a Kiev. Cercare di congelare le ostilità – secondo Wang – è la vera priorità per poter aprire corridoi umanitari, “ripristinare la funzionalità economica di base e avviare negoziati per una soluzione a lungo termine”. Sarà poi una forza di peacekeeping “mista” a inibire futuri conflitti: oltre ai principali attori europei, il coinvolgimento di cinque nazioni Brics (Cina, Brasile, India, Sudafrica ed Egitto) darebbero legittimità all’operazione grazie al loro “non allineamento”.

Così, come in altre circostanze, il gigante asiatico metterebbe il cappello a un’iniziativa globale, lasciando ad altri la parte più ostica dei negoziati: portare allo stesso tavolo Putin e Zelensky. In questa fase la Cina non sembra ancora pronta a vestire i panni da protagonista.

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