Che idea irreale hanno gli intellettuali del rapporto fra teoria ed esperienza

  • Postato il 26 ottobre 2024
  • Di Il Foglio
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Che idea irreale hanno gli intellettuali del rapporto fra teoria ed esperienza

In queste settimane, dopo la morte di Fredric Jameson, si sono letti elogi un po’ fuori misura per un tardo e spesso farraginoso casista del marxismo. Come Habermas – che però è limpido, e ha tutt’altra statura – Jameson si rifà a una tradizione di cui gli manca il tratto essenziale (ereditato invece da Enzensberger): ovvero la capacità di unire tempestivamente, con intuito e stile saggistico, i particolari offerti dalla cronaca all’universalità dei presupposti teorici. Entrambi i pensatori hanno reso quella tradizione astratta o generica, neutralizzandola attraverso i modi tipici dell’accademizzazione tardonovecentesca della cultura.

E dato che maestri come loro hanno giocato un ruolo rilevante nella formazione del ceto intellettuale (post)umanistico, non pochi dei suoi rappresentanti odierni mostrano un’idea irreale del rapporto che corre tra l’esperienza quotidiana e la politica, la letteratura o la filosofia: il che è tragico, in un’epoca in cui l’eccesso d’informazioni, e l’impossibilità di decifrarne la maggior parte con rigore specialistico, esigerebbe più che mai un buon numero di esseri umani perfino “fisicamente” consapevoli del punto di vista da cui guardano il mondo, e abbastanza forti da non scambiarlo per uno immaginario a seconda dei ricatti dell’attualità.

Prevale, invece, la scissione tra un’attitudine demagogica da opinionisti e una boria da debunker quasi sempre indebita, essendo esibita a proposito di temi che non permettono un approccio “scientifico”. Manca, insomma, la prassi di ricerca di cui c’è più bisogno: quella di Socrate, e di Montaigne. Filosofi, critici e scrittori hanno dimenticato che certe cose possono venir comprese ed espresse solo nella forma del dialogo, del saggio, del “tentativo”. Oblio paradossale, in intellettuali che enfatizzano i debiti con Lukács e i francofortesi, o su un altro versante con Nietzsche (del resto filtrato, nove volte su dieci, dalle derealizzanti manipolazioni heideggeriane).

Forse occorrerebbe tornare all’inizio del XX secolo, e privilegiare un’altra strada. Per esempio quella di tre filosofi che allora scelsero di sottoporre la loro meditata concezione teoretica alla prova dell’occasione quotidiana e del genere saggistico: Simmel, Alain e Ortega y Gasset. Nella sua filosofia della vita in lotta con la forma, Simmel insegue l’ossimoro di una “legge individuale”: crede, cioè, che alla profondità speculativa si possa arrivare solo partendo da singoli oggetti comuni (un vaso, un vestito, un’andatura) e in particolare dalla superficie scintillante della modernità metropolitana. Gli esseri umani riescono a tollerare i troppi stimoli di questa modernità solo sfiorandoli in un gioco continuo di distanza e vicinanza. E’, ad esempio, il gioco della civetteria, che Simmel analizza facendo coincidere l’idea pura del fenomeno con la sua descrizione fisica (la civetta guarda “con la coda dell’occhio e la testa mezzo girata”, dando e togliendo attenzione in un unico gesto); ed è, ancora, il gioco della moda, che garantisce a un tempo “obbedienza sociale” e “differenziazione individuale” a una nuova classe media i cui membri non possono più aspirare a un’esistenza umana integra.

A Simmel si rivolse il giovane Ortega, instancabile fondatore di riviste. Anche lo spagnolo colma i vuoti del kantismo con un approccio prospettivistico (“Ogni vita è un punto di vista dell’universo”) e approda a un pragmatismo già esistenzialista; anche lui s’identifica con l’immagine di un Goethe non olimpico ma niccianamente inquieto; e anche lui tende all’indagine sociologica – “io sono io e la mia circostanza” – condotta con uno stile che rivendica il ruolo conoscitivo delle metafore. Filosofo elzevirista, narrativo e teatrale, Ortega riunisce sotto il suo titolo più famoso una serie di articoli. “Le città sono piene di gente. Le case, piene d’inquilini. Gli alberghi, pieni di ospiti. (…) Quello che prima non costituiva un problema, incomincia a esserlo quasi a ogni momento: trovar posto”, recita l’incipit di “La ribellione delle masse”, che tematizzando l’equivoco tra giusta democrazia dei diritti e falsa democrazia della qualità parla ancora di noi.

Come Ortega, Alain ricorda che la libertà si conquista giorno per giorno, resistendo contro ciò che in noi tende all’inerzia; ma lo fa coi modi della tradizione cartesiana e radicale francese. In lui il “propos”, ragionamento chiuso in un trafiletto di giornale, raggiunge la perfezione di una sorta di sonetto saggistico. Descrivendo un mestiere o un fiore, una passione o un volto umano, Alain riporta ogni dettaglio della vita a quella “cieca necessità” del cosmo che l’uomo vince nell’atto di definirla. Rifiuta le fantasticherie solipsistiche, che sfuggono all’attrito indispensabile con gli ostacoli mondani, ma anche la delega del pensiero alla “bestia sociale”, perché “solo l’individuo pensa, ogni assemblea è stupida”. C’è già, in questo Alain, la nettezza della sua allieva Weil; ma c’è, soprattutto, l’antidoto alla cattiva filosofia e alla cattiva politica che hanno trionfato dal ’900 a oggi.

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Autore
Il Foglio

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