Che ci piaccia o no, Cattelan c’è

  • Postato il 8 luglio 2025
  • Di Panorama
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Nella vita moderna, che ha fatto assurgere il chiacchiericcio di bar al rango di comunicazione globale, il non far parlare di sé è diventata sciagura assai peggiore del suo contrario. Bisogna fare notizia, pena l’irrilevanza. Cattelan come Silvio Berlusconi. Se ne può parlare bene o male, ognuno con motivazioni che possono essere anche le più giustificabili, ma non si può negare che ci si trovi comunque davanti a un fenomeno di portata fuori dal comune, di quelli che a fare finta che non siano, si rischia di capire poco del mondo con cui si ha a che fare. Tu forse non esisti, ma Cattelan sì. E se esiste, è perché pratica, anche con una certa scaltrezza, quell’arte del far parlare di sé per la quale non c’è affatto bisogno di avere qualcosa da dire.

Nel 2011 Cattelan, già ricco e riverito, aveva dichiarato di abbandonare definitivamente il palcoscenico dell’arte, convinto di avere esaurito qualunque discorso che fosse in grado di esporre attraverso di essa. Nessuno a crederlo. Non che quell’esaurimento sembrasse inverosimile, tutt’altro, ma da solo non sembrava capace di poterlo tenere fuori dalla scena. Non conta ciò che si dice, conta che lo si dica, questo era stato il leitmotiv per antonomasia del suo proporsi in arte. Deve esserselo ricordato anche lui, se è vero che quel ritiro è durato pochi mesi, dopo i quali si è peraltro dedicato a una delle esperienze più azzeccate della sua carriera, la grafica applicabile all’infinito, fra Elio Fiorucci, Pop e Dadaismo degli anni Duemila, del progetto Toiletpaper (carta igienica). Una delle sue innumerevoli trovate, il ritiro, che è servita a tenere i piedi ben saldi nel flusso onnipotente del gossip globale. Non si discute: questa è arte a tutti gli effetti, arte dei nostri tempi. Fa il gigione, Cattelan, sentendosi un novello Duchamp, ma ricorda più il Roberto Benigni di una volta. Si diverte ancora a épater les bourgeois, come dicevano i Maudits, a burlarsi degli altri facendoli oggetto delle sue facili provocazioni col sapore del déjà vu, e questi, invece di rincularlo, lo prendono sul serio. Più gigioneggia, più gli si riconosce del genio e più salgono le sue quotazioni di mercato. Lui scherza anche su questo aspetto, da esponente di una financial art che riconosce all’economico di essere il più concreto valore fra quelli coinvolti nel suo meccanismo. Una delle imprese più note di Cattelan è stata America (2016), un wc d’oro – ancora scatologia da bagno, deve essere una fissazione – dal peso di circa 100 chili che, dietro l’evanescente satira anti statunitense e anti capitalista, poneva in realtà più consistenti quesiti sulla condizione economica delle opere d’arte (se un quintale d’oro vale tanto, quanto può aggiungere il fatto che sia impiegato in un’opera d’arte? Potrebbe mai la sua materia valere di meno se l’opera che se ne serve perdesse di valore nel suo specifico mercato?).

Ad alcuni dei quesiti hanno risposto direttamente i ladri, che con una performance più brillante della sua se ne sono fregati dell’arte per puntare sull’oro, rifuso in modo da potere essere impiegato diversamente. Ma quel wc aveva una copertura assicurativa da quasi cinque milioni di sterline e Cattelan, visto il carattere concettuale dell’opera, rimane sempre libero di replicarlo non meno di quanto abbia fatto Duchamp con la sua Fontana/Orinatoio, madre ideale di America. Alla fine ciò che rimane a galla è il denaro, grazie proprio a quelle contraddizioni del capitalismo, e del sistema dell’arte contemporanea in esso compreso, che si vorrebbero fustigare. Contraddizioni dentro le quali Cattelan sguazza come un Re Mida, vendendo a una cifra spropositata una banana attaccata a una parete col nastro adesivo (Comedian, 2019) se trova un ultramiliardario che la vuole pagare così tanto solo per dimostrare che lui può. Ha ragione a riderci sopra, se c’è un fesso in questa storia non è certamente lui, finché ce ne saranno altri ci potrà sempre essere speranza. Fessi col portafoglio gonfio, s’intende, perché è in primo luogo al loro servizio che l’arte contemporanea deve porsi, gli altri al massimo possono scandalizzarsi o applaudire.                                                                                                          

Al padovano Maurizio Cattelan, da un ventennio almeno l’artista italiano contemporaneo più conosciuto al mondo, la Galleria d’arte moderna e contemporanea di Bergamo dedica una mostra dal titolo Seasons, diffusa in cinque luoghi della città, con opere in parte site specific, come si dice oggi (fino al prossimo 26 ottobre). Bones propone una realistica aquila in marmo, a evocare non solo un’opera bergamasca di Giannino Castiglioni che osannava Mussolini, ma tutti i poteri che hanno fatto ricorso a questo simbolo, sfracellatasi al suolo. In Empire la parola in questione viene riportata su mattone, chiuso dentro una bottiglia di vetro: anche questa una simbologia buona per tutti gli usi, come capita con certi gadget per regali spiritosi. No è la ripresa di un cavallo di battaglia di Cattelan, Him (2001), l’Hitler in silicone che originariamente s’inginocchiava nel ghetto di Varsavia. Qui la testa dell’infame viene coperta da una busta venendo in pratica censurata così come a suo tempo si chiese in Cina. È chiaro che in queste condizioni, come succederebbe se si mozzasse la testa della Venere di Milo, l’opera perde in significati originari per poterne acquisire altri. Ma è quello che era successo anche col primo esemplare, venduto nel 2016, ben lontano dal ghetto di Varsavia, a quasi diciotto milioni di dollari.

In November un presumibile «barbùn» ancora in marmo lascia una pozzanghera di urina mentre dorme su una panca: smitizzazione dell’artisticamente sacro, ma anche sua umanizzazione. L’operazione più simpatica di Seasons è One, col bambino dalle fattezze vagamente «catteliane», simili a quelle dei Tre impiccati che l’artista fece pendere da un albero pubblico a Milano provocando il solito choc nei più sciocchi, che gioca alla guerra sedendosi sulle spalle della statua di Giuseppe Garibaldi in bronzo nella rotonda di Piazza dei Mille. Un modo per rianimare una monumentalistica civile che poco dialoga con i contemporanei, ricordando che Bergamo offrì volontari alla spedizione del 1860 più di ogni altra città, ma anche per omaggiare i più piccoli. Per sua stessa ammissione, Cattelan è un bimbo mai cresciuto: se proprio non riusciamo a farne di nuovi, almeno teniamoci dentro quello che siamo stati, sarà nostro prezioso compagno di vita.

Spacciare il vecchio per nuovo, come vuole la regola aurea del mercato di questi tempi, ecco la maggiore abilità di Cattelan che si ricicla continuamente come un abito usato. Del resto, perché mai l’arte contemporanea dovrebbe perseguire il nuovo? Roba vecchia.

Autore
Panorama

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