Cervello in panchina: l’AI scrive, noi diventiamo più pigri e meno creativi
- Postato il 6 luglio 2025
- Di Panorama
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Lo hanno chiamato “debito cognitivo”: è la riduzione dell’attività cerebrale osservata da un gruppo di ricercatori del MIT in chi scrive testi affidandosi all’intelligenza artificiale. Il loro studio, “Your Brain on ChatGPT”, mostra che chi si affida all’AI per scrivere dimentica più in fretta, ragiona di meno e produce testi meno creativi e personali. Un cervello in panchina, in attesa che l’algoritmo giochi al posto suo. Ma per chi lavora nella scuola, questa non è una novità. Da mesi — e in modo sempre più evidente — gli studenti usano ChatGPT come un super-motore di ricerca, un alleato-complice che svolga una ricerca che sforna già bella e finita, che traduce in un baleno, che risolve, che compone: uno strumento perfetto per trovare scorciatoie più che per aprire nuove strade. E così i compiti assegnati a casa – senza pensare a quelli svolti in classe con ausili tecnologici sottobanco – si assomigliano tutti, le argomentazioni si svuotano, il pensiero critico si dissolve in un copia-incolla ben formattato, con buona pace di docenti che un po’ non se ne accorgono, un po’ dubitano, un po’ diventano investigatori, un po’ denunciano e di conseguenza iniziano a litigare con tutti, perché azzardare che un lavoro sia stato svolto con ChatGPT è la nuova infamante accusa da non pronunziare. L’intelligenza artificiale diventa così un esercizio di disimpegno: la fine dello sforzo, non l’inizio della conoscenza. È stato così con la televisione, quando ha abdicato alla sua attività informativa e addirittura formativa dei primi anni per lasciare spazio a sempre maggiore intrattenimento, fino all’abbruttimento costante. È stato così per gli smartphone, più potenti della televisione, quindi più distraenti, più disturbanti se usati male, e così avviene, basta guardarsi intorno, alzando lo sguardo, appunto, dal proprio telefono. Ora accade, o è già accaduto, con uno strumento ancora più potente e subdolo, l’intelligenza artificiale. Potente perché la tecnologia interagisce sempre di più e curva la sua azione in base alle richieste, di ogni tipo. Subdolo perché si traveste ancor di più da alleato per svolgere attività lavorative, o di studio, o di conoscenza, così da risultare non arginabile, troppo comodo, intelligente, utile.
È una china prevedibile, perché si ripete negli anni: ci sono i critici della prima ora, ci sono gli abbagliati della prima ora, c’è l’uso che si fa massiccio, c’è l’assenza di qualsiasi meccanismo di regolamentazione, c’è che a un certo punto si chiede alla scuola di formarsi e di formare, a basso costo, come fosse la scuola unica imputata e così eventuale colpevole di nuovi crimini contro lo spirito critico. La scuola ha le sue responsabilità, ma non risiedono nella mancanza di formazione sull’AI del corpo docente, piuttosto nell’essere sempre meno accogliente – portatrice di curiosità, di lavoro ben fatto, di accuratezza – e sempre meno selettiva – sì, perché l’organismo scuola è così delicato e in equilibrio che dovrebbe garantire sia accoglienza che selezione, in modi diversi, in tempi diversi, ma senza rinunciare a nulla. Una scuola che si apre a tutti e che è capace di mostrare – e di insegnare – cura e bellezza è il migliore viatico per aprire le porte del futuro, intelligenza artificiale compresa, e la questione – si badi bene, perché finirà così! – non si risolve con un corso che insegni a impostare un prompt efficace, ma con lezioni coinvolgenti svolte da docenti preparati, motivati e legittimati da condizioni sociali e lavorative decorose. Insomma, siamo sempre alle stesse richieste, inascoltate e forse per questo vere. Il MIT ha messo i sensori, ma la scuola ci aveva già messo gli occhi. Ora che anche la scienza certifica il pericolo, è il momento di ripensare il modo in cui l’AI entra nelle classi: non come sostituto del pensiero, ma come suo alleato. Purché si parta da noi, non dalla macchina.