Censura da manifesto: così i Comuni zittiscono le opinioni
- Postato il 11 agosto 2025
- Di Panorama
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«Scippi in metro? Ora finisci in galera senza scuse». «Occupi una casa? Ti buttiamo fuori in 24 ore». Non sono così sicuro che il decreto sicurezza, recentemente approvato dal governo, produca davvero quei meravigliosi effetti che la Lega sostiene con la sua campagna pubblicitaria a suon di manifesti. Mi piacerebbe, ma temo non sia così. E ci aggiungerei: purtroppo. Però loro ne sono convinti. E allora domando: un partito politico non ha forse il diritto di affiggere sui muri delle città ciò di cui è convinto? Non può comunicare ai cittadini ciò che crede giusto comunicare? E c’è qualcosa di male se in quei cartelli compaiono anche persone di colore o rom? Forse non è un dato di realtà che, Istat alla mano, la percentuale di reati commessi da stranieri è, in proporzione decisamente superiore a quella commessa da italiani? Che sono il 9 per cento della popolazione residente ma commettono il 52 per cento delle rapine e il 48 per cento dei furti? Non è forse vero che a Milano (dati ufficiali) il 65 per cento dei crimini è commesso da stranieri? E non è forse vero che i borseggiatori rom sono un fenomeno noto e diffuso nelle grandi città e non solo? Non sono loro stessi, i rom, a rivendicare il diritto di borseggiare?
La rimozione dei manifesti a Roma
Eppure quei manifesti a Roma sono stati rimossi. Il sindaco Roberto Gualtieri appellandosi ai regolamenti comunali come un Azzeccagarbugli all’amatriciana, e lamentando supposti messaggi discriminatori, li ha vietati. Ancora una volta si è preferito il bavaglio alla discussione. La censura alla confutazione. Anziché contestare nel merito le rivendicazioni della Lega, si è preferito eliminarle. Cancellarle. Negando con esse anche un pezzo di indiscutibile realtà: negando che gli extracomunitari delinquano, che i rom borseggino, che le nostre città siano diventate insicure a causa di un’immigrazione incontrollata e di un eccesso di permissivismo. Non è vero nulla di tutto questo secondo il sindaco di Roma, cui evidentemente piacciono molto le favole. E tutti vissero felici, Gualtieri e contenti.
Una pratica sempre più diffusa
Purtroppo, però, la rimozione del manifesto è una pratica fin troppo diffusa. Ormai quasi una malattia, forse anche un’epidemia. Se la realtà non piace, la si cancella. Se un’idea non convince l’assessore di turno, viene oscurata. I Comuni si sono trasformati silenziosamente, giorno dopo giorno, in grandi censori, custodi dell’ortodossia benpensante, guardiani della correttezza ideologica. Alla faccia della democrazia. Nel 2018 il Comune di Roma arrivò a censurare un manifesto esposto da Pro Vita non sui muri della città, ma sulle vetrine della sua sede: la foto di un feto, con scritto «tu eri così a 11 settimane». Sette anni dopo il giudice di pace ha detto che quel divieto era immotivato. Eppure l’epidemia di censure continua. Solo qualche settimana fa, per esempio, c’è stata una rimozione collettiva in varie città italiane (la stessa Roma, Bergamo, Brescia, Rimini, Chiavari…) dei manifesti di Pro Vita contro l’educazione gender nelle scuole. «Oggi a scuola ci hanno letto una favola in cui la principessa era un uomo», diceva uno di quei messaggi giudicati tanto pericolosi. Evidentemente trattasi di lesa maestà alla principessa col pisello.
Censure per ragioni politiche
Ora: si potrà anche essere in disaccordo con quei manifesti contro il gender, ma sono una minaccia per l’ordine pubblico? E che senso ha vietarli? Il Comune di Roma si è giustificato dicendo che essi sono «contrari alle politiche di genere» dell’amministrazione. E così, di fatto, ha gettato la maschera: le censure non sono motivate da ragioni etiche o regolamentari, ma da ragioni puramente politiche. Quando nel 2022 furono vietati i manifesti Pro Vita contro l’aborto si disse che erano state violate i regolamenti sulle affissioni: balle. Quando nel 2020 furono vietati i manifesti Pro Vita contro la pillola abortiva, si disse che «ingeneravano allarme per la salute»: balle. Si vietano i manifesti perché non piacciono i contenuti di quei manifesti. Ma che cosa c’è di più antidemocratico che vietare la diffusione di idee contrarie alle proprie?
Una silenziosa abitudine
Eppure ormai è una silenziosa, e supinamente accettata, abitudine. Appaiono nella Capitale dei manifesti che dicono «La Russia non è nostra nemica. Basta armi a Ucraina e Israele»? Rimossi perché «manca l’autorizzazione preventiva». Appaiono in Trentino due striscioni che ricordano Andrea Papi, ucciso dall’orsa mentre faceva footing? Rimossi perché «minacciano la sicurezza stradale». Appaiono a Milano un cartellone di Cattelan sulla mostra Italia 70 della Fondazione Trussardi? Rimosso perché raffigura una pistola. Come se negli anni Settanta non ci fossero stati il terrorismo e le Brigate rosse. Ma tant’è: ormai s’è fatta largo l’idea che basta rimuovere un manifesto per rimuovere la realtà. Elimini il manifesto sugli occupatori di case? Le case non saranno più occupate. Elimini il manifesto sui borseggiatori rom? I turisti non saranno più borseggiati. Basterà fare un giro sul metrò di Roma per accorgersi di quanta ipocrisia ci sia dietro queste decisioni. E per capire che il problema non è tanto che cosa attaccare al muro. Ma chi attaccare al muro (metaforicamente parlando, s’intende).