Carioti: è Mantovano il regista dell'operazione Cecilia Sala
- Postato il 9 gennaio 2025
- Di Libero Quotidiano
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Carioti: è Mantovano il regista dell'operazione Cecilia Sala
La teoria secondo cui il potere inebria chi ce l'ha deve fare i conti con un'eccezione: Alfredo Mantovano. L'uomo che su mandato di Giorgia Meloni ha mosso i pezzi per liberare Cecilia Sala di potere ne ha tanto. Glielo danno i suoi incarichi (sottosegretario alla presidenza del consiglio e autorità delegata per la sicurezza della repubblica: la figura che coordina i servizi segreti e dà loro l'indirizzo politico) e la capacità di muoversi nella zona minata all'incrocio tra politica, magistratura, Quirinale e Vaticano, dove tanti ci hanno lasciato la pelle. La sua testa, però, non è cambiata.
L'elettore comune, se lo incontra per strada, non lo riconosce. Zero apparizioni in televisione, nessun cedimento alla vanità. «Io sono in silenzio stampa già ordinariamente, figuriamoci in questo caso», ha detto l'altro giorno a chi sperava in una sua reazione sull'offerta di Elon Musk. È l'ennesima variante della frase che ogni giorno ripete ai giornalisti in attesa davanti palazzo Chigi: «Ha parlato il presidente, non serve che parli io». Quando scrivevano che lui e Giovanbattista Fazzolari litigavano sui dossier più importanti, i due si divertivano a leggere insieme quei racconti. Poi hanno smesso di scriverli, si è capito che i tentativi di metterli l'uno contro l'altro non funzionano.
Del resto Mantovano si è scelto un modello difficile, lontanissimo dallo spirito di questo tempo: il beato Rosario Livatino, il giudice siciliano ucciso a 38 anni dalla mafia, il 21 settembre 1990. A Livatino è intestato il Centro studi che Mantovano, con altri giuristi, ha fondato nel 2015: per chi ha un'etica della giurisdizione diversa da quella di Magistratura democratica, il sito di questo pensatoio è una tappa obbligata. Nell'intervista fatta a Radio radicale lo scorso settembre, Mantovano ricorda che «Livatino non era uno che si mostrava. Rispetto ad alcune cose che da tempo danno fastidio, come un'eccessiva visibilità e un'eccessiva loquacità dei magistrati o di una parte di loro, anche nei processi e negli affari che trattano, per Livatino il riserbo era un comandamento». Non vale solo per le toghe, è anche la regola che Mantovano ha dato a se stesso.
Il disinteresse per la notorietà e una fede non ostentata lo aiutano a mantenere freddezza anche nelle situazioni difficili. Come ieri, uno dei giorni più complicati. Giovanni Caravelli, direttore di lungo corso dell'Aise, l'agenzia degli 007 italiani all'estero, era a Teheran, per riportare a casa la nostra connazionale. A palazzo Chigi era stata allestita la “waiting room”, la sala con Mantovano al tavolo assieme ad altri dirigenti dell'intelligence e della diplomazia. Aspettavano la telefonata che confermasse la “chiusura” dell'operazione, la certezza che Cecilia Sala era sull'aereo pronto a decollare per Ciampino. La chiamata non arrivava e contattare Caravelli era impossibile.
Un'ora attorno a quel tavolo è passata così, con la tensione e la preoccupazione che salivano. Finché il telefono non ha squillato e Caravelli ha detto la frase che tutti aspettavano: «Siamo sull'aereo, il presidente Meloni può avvisare la madre». Uno solo era rimasto imperturbabile durante tutta quell'attesa, ed era Mantovano.
Inizia come magistrato a Lecce, la sua città: una delle poche toghe appartenenti alla destra cattolica. Nel 1996 fa il salto e viene eletto deputato nelle liste di An, partito in cui entra ufficialmente l'anno dopo. Nel 2001 si sceglie l'avversario più difficile, Massimo D'Alema, per di più nel collegio di Gallipoli: non ce la fa, ma è comunque eletto col proporzionale. Fa il sottosegretario all'Interno nel governo Berlusconi, ruolo che ricopre di nuovo nel 2008. Chiude con la politica nel 2013, quando sceglie di tornare in magistratura, dove diventa consigliere della Corte di Cassazione. Sono gli anni in cui si dedica al Centro Livatino e alla fondazione di diritto pontificio “Aiuto alla Chiesa che soffre”, che difende i cristiani perseguitati nel mondo: lui è il presidente della sezione italiana.
Non si candida nemmeno nel 2022, ma quando Meloni cerca una figura che abbia la sensibilità e la cultura necessarie per trattare con le alte magistrature e gli uffici legislativi del Quirinale, chiama lui, per affidargli poi anche la delega ai servizi. Come bonus aggiunto, Mantovano porta alla causa del governo i valori di un cattolicesimo di destra lontano da ogni neofascismo. Chi lavora con lui gli attribuisce «una capacità inumana di stare su tutti i dossier, anche i più diversi, fino ai minimi dettagli». Dote che lo fa essere apprezzato come segretario del consiglio dei ministri, dove deve passare dal decreto sull'immigrazione a quello sulle criptovalute, e che avevano fatto pensare a lui anche per rilevare le deleghe sul Pnrr lasciate libere da Raffaele Fitto: ma poi ai servizi segreti e al resto chi pensa?
S'intende bene con Sergio Mattarella e col piddino Lorenzo Guerini, presidente del Copasir: cattolici di cultura sociale, diversa dalla sua, ma che in comune con lui hanno quell'idea un po' antica per cui le istituzioni vengono prima di ogni altra cosa. Le rarissime volte in cui parla in pubblico, lo fa per tracciare linee nette. Prende per sé la battaglia contro le droghe, avverte che l'aborto non deve figurare tra i «diritti fondamentali» dell'Unione europea e critica la Ue perché «trascura l'unico elemento identificante dell'Europa, la sua radice cristiana». Non lo vedremo mai fare un video su Tik Tok o chiedere voti baciando bambini, e conforta sapere che c'è ancora qualcuno così.
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