Canada: il lungo addio di Justin Trudeau
- Postato il 19 gennaio 2025
- Di Panorama
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Canada: il lungo addio di Justin Trudeau
Trudeau in questo momento è come il topo che si nasconde sotto i mobili della cucina quando cerchi di scacciarlo con una scopa. Prima o poi, lo becchi di sicuro». La profezia di Kevin O’Leary, l’investitore nel reality show Shark Tank, una vera chicca nella tempesta di invettive che per mesi si è abbattuta su Trudeau il giovane, si è realizzata all’inizio della settimana scorsa.Il topolino Trudeau si è arreso, è uscito dal suo nascondiglio e ha annunciato che si farà da parte come primo ministro e come leader dei Liberali, con il Parlamento in proroga fino al prossimo 24 marzo, sino a quando non sarà individuato il suo successore alla guida del partito. Il timore che la «scopa» elettorale possa spazzare via il Partito liberale, privandolo del titolo di opposizione ufficiale dopo le elezioni previste per ottobre, è concreto. Una fine ingloriosa per un leader che, nel 2015, aveva fatto sognare il progressismo mondiale, ma che almeno smentisce i «loggionisti« che nelle sue ultime apparizioni pubbliche lo avevano accusato di non avere la dignità del padre Pierre, che abbandonò il potere dopo una mitica camminata solitaria nella neve. La parabola discendente di Trudeau, documentata nel tempo da Panorama, ha raggiunto il punto di non ritorno a metà dicembre con la lettera aperta con cui Chrystia Freeland, ministra delle Finanze e vice premier, si era dimessa nel giorno in cui doveva presentare la manovra di bilancio autunnale. Un’uscita da parte del mastino che ha negoziato con successo i dazi della prima presidenza Trump e mandato avanti il Paese durante il Covid, che si è aggiunta ai sondaggi disastrosi (alla vigilia di Natale si dava Poilievre al 31 per cento, Jagmeet Singh, il leader dell’Ndp, al 13 per cento e Trudeau all’11 per cento), ma anche alle tre elezioni locali perse nelle roccaforti storiche dei Liberali.Un tracollo nei consensi rispetto ai «sunny days» della vittoria elettorale nel 2015, mentre oggi il Paese è alle prese con dati allarmanti su debito privato, il più elevato nel G7, sanità (il 20 per cento dei canadesi non ha il medico di famiglia) ed edilizia residenziale, con un’offerta che non ha tenuto il passo della domanda gonfiata dalla pressione migratoria.
Un disastro rispetto a cinque anni fa, quando il Covid era ancora di là da venire e la disoccupazione era ai minimi storici, il rapporto debito/Pil al 30 per cento, uno dei più sani tra le economie avanzate, e il Prodotto interno lordo cresceva dell’1,6 per cento, un dato fisiologico per un’economia matura come quella canadese. Uno dei principali motivi di dissidio tra Trudeau e Freeland ha riguardato le strategie da mettere in campo per assorbire i contraccolpi del dazio universale del 25 per cento preannunciato da Trump sulle importazioni dal Canada e dal Messico. La lezione del passato è che i dazi sull’acciaio e l’alluminio nel 2016 ebbero vita breve e portarono all’Usmca, il trattato sul commercio estero fra i tre Paesi che ora Trump vuole gettare alle ortiche. La Freeland ha sposato la linea della presidentessa del Messico, Claudia Sheinbaum: «È il momento di dire di no, di restituire colpo su colpo e di prepararsi alla lotta». Per il premier uscente, invece, le minacce di Trump sono solo una strategia negoziale. Il suo tentativo di rabbonirlo, culminato nella tragicomica cena a Mar-a-Lago, in cui The Donald ha proposto al Canada di diventare il 51esimo Stato americano, è però servito solo a proiettare l’immagine di un leader debole e in scadenza. La posta è enorme: nel 2023 il Canada ha esportato negli Usa per circa 500 miliardi di dollari, il 20 per cento del Pil. Un dazio del 25 per cento porterebbe a 125 miliardi di costi aggiuntivi. Sostenuti dagli esportatori canadesi (attraverso prezzi più bassi), dai consumatori statunitensi (attraverso prezzi più alti) o da un mix di entrambi. Il risultato? Una recessione sicura per il Paese della foglia d’acero, ma anche un conto molto salato a sud del confine.
«Le contropartite chieste da Trump, ovvero il blocco dell’immigrazione illegale e del commercio del fentanyl e l’aumento della quota sul Pil per le spese della Nato, rientrano nella sfera d’azione del governo» dice Meredith Lilly della Carleton University di Ottawa. «I margini di manovra sono, invece, inesistenti se il vero obiettivo dei dazi è quello di aumentare l’introito fiscale per far fronte al taglio delle tasse promesso da Trump».Ottawa ha già stanziato 1,3 miliardi di dollari aggiuntivi per mettere in campo più droni e poliziotti alla frontiera, ma molto di più, e in fretta, dovrà essere fatto per la spesa militare, troppo a lunga trascurata: nella Nato il Canada ha il settimo budget per la difesa, ma anche uno dei più bassi rapporti difesa/Pil. Due esperti di cose militari come Philippe Lagassè e Justin Massie hanno spiegato sul quotidiano Globe and Mail come spendere i 15 miliardi in più all’anno necessari per arrivare, in tre anni, al 2 per cento del Pil. Per esempio, aumentando gli ordini degli F35 dagli attuali 88 (l’Italia è a 115) e i salari per arruolare nuove reclute. La Marina ha chiesto il dispiegamento di 12 nuovi sommergibili e di 15 fregate per ripristinare le capacità militari nell’Artico. Che Putin, dall’alto della sua flotta da 50 navi rompighiaccio (contro le 20 canadesi e le tre americane) considera come un mare russo. Il conservatore Doug Ford, il premier dell’Ontario, di fronte alla «timidezza» della risposta di Trudeau, ha incluso nella sua lista di ritorsioni possibili la chiusura della rete elettrica e del rubinetto del petrolio e del gas, ma anche il blocco dell’esportazione del legno del Paese da cui l’edilizia americana dipende. Con il prezzo al rialzo della benzina e delle case, le promesse di Trump sulla riduzione del costo della vita per gli americani rimarrebbero lettera morta. E con il dollaro di Ottawa sotto la soglia dei 70 centesimi rispetto al biglietto verde, i prodotti canadesi potrebbe continuare a entrare negli Usa nonostante i dazi.Per Meredith Lilly «il deficit commerciale di circa 65 miliardi a vantaggio del Canada deriva quasi integralmente dall’esportazione di energia a buon mercato negli Usa. Ma ci sono altri settori critici, come quello dei fertilizzanti, e in particolare del potassio solubile, uno dei tre nutrienti indispensabili in agricoltura. L’80 per cento di quello utilizzato dai farmer americani viene dal Canada. Con un dazio del 25 per cento, il disavanzo aumenterebbe, così come il prezzo del cibo».Un impatto pesante avrebbe anche l’industria dell’auto. «Durante l’assemblaggio, veicoli e componentistica passano il confine 6 o 7 volte. Come si fa ad applicare, ogni volta, un dazio su un prodotto non finito? Il Canada, peraltro, può limitare l’esportazione di minerali strategici, come già fa la Cina. O ammorbidire la tassazione sui servizi digitali, che penalizza i colossi del web americani perché legata ai volumi, magari rimodulando le quote a protezione dei contenuti nazionali, incluse le news. La cooperazione con gli Usa nel digitale, in particolare nell’Intelligenza artificiale, è cruciale per il Canada che unisce competenze scientifiche di prim’ordine a un quadro normativo soffocante».
Per Nik Nanos, il re dei sondaggisti canadesi, Chrystia Freeland ha il maggior gradimento tra i papabili alla guida dei Liberali, col 19 per cento, mentre Mark Carney, il Mario Draghi canadese, l’ex governatore della Banca nazionale e della Banca d’Inghilterra ai tempi della Brexit, si troverebbe al secondo posto, col 14 per cento. Entrambi molto al di sotto di Pierre Poilievre, che liberatosi di Trudeau, ha un problema nuovo nelle provocazioni di Trump circa l’unificazione di Canada e Stati Uniti. Una boutade che secondo un sondaggio di Leger affascina «solo» il 13 per cento dei cittadini (ma è il 30 per cento tra gli under 40). Magari abbagliati dai numeri di un’entità che sommerebbe le vaste risorse naturali del Paese (petrolio, legname, acqua dolce) con le capacità tecnologiche, industriali e militari degli Usa, e avrebbe una popolazione di oltre 380 milioni di abitanti e un Pil superiore a 27 mila miliardi di dollari. Poilievre se l’è cavata con un perentorio «il Canada non sarà mai il 51º Stato», ma ha anche sentito il bisogno di affermare di avere la «forza e l’intelligenza» per difendere gli interessi nazionali nelle relazioni con l’ingombrante vicino. Per adesso, la maggioranza degli elettori, almeno nelle intenzioni di voto, sembra disposta a credergli.