“Black Box Diaries”, il Giappone censura lo stupro di una (sua) giornalista: il docufilm candidato agli Oscar non viene proiettato

  • Postato il 21 febbraio 2025
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  • Di Il Fatto Quotidiano
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Un documentario si trova intrappolato nel limbo censorio del sistema nipponico. La prima proiezione di “Black Box Diaries” risale al gennaio del 2024 quando venne mostrato al Sundance Festival, e dopo l’accoglienza positiva del pubblico e della critica è stato distribuito in 57 paesi, presentato nei più prestigiosi film festival del mondo, vinto 18 premi e candidato agli Oscar 2025 come miglior documentario. Eppure nessun cinema in Giappone lo ha ancora proiettato, nemmeno per preview riservate. Il problema è che narra esplicitamente della violenza sessuale subita da Ito Shiori, giornalista, scrittrice del memoir “Black Box” – tradotto anche in italiano – e regista del documentario che lo rappresenta visivamente. Sono trascorsi 10 anni dallo stupro all’Hotel Sheraton di Tōkyō, mentre la giornalista era incosciente, eppure le violenze psicologiche e le ingiustizie nei confronti di Ito continuano, con la prospettiva della distribuzione del suo film in Giappone assolutamente incerta.

Il caso che ha implicato il noto reporter Yamaguchi Noriyuki – giornalista ex responsabile dell’ufficio di Washington dei programmi News della televisione TBS, nonché amico e biografo dello scomparso primo ministro Shinzo Abe – a seguito della denuncia sporta dalla giornalista, ha vissuto anni di tira e molla da parte della polizia ma si è concluso nel 2019 con una sentenza storica emessa dal tribunale distrettuale di Tokyo che ha ordinato a Yamaguchi di risarcire i danni per circa 27.000 euro. La giornalista ora 35enne, tuttavia, ha continuato una battaglia che non è solo sua, perché appartiene a quel 95% di donne che in Giappone ancora non denuncia le violenze subite, una tenacia che ha alimentato la crescita del #MeToo giapponese grazie al suo libro e al docufilm. In Giappone particolarmente, le critiche nei confronti di Ito, gli episodi di bullismo e la censura non smettono di esistere. Proprio ieri al Press Club dei corrispondenti stranieri di Tōkyō, si è svolto un incontro a cui hanno partecipato due avvocate di Ito e Nishihiro Yoko, che ha difeso la giornalista per gli 8 anni e mezzo di cause civili contro Yamaguchi (che non ha mai perso il posto alla TBS).

Di fronte a più di cento giornalisti/e di agenzie straniere e giapponesi, si è affrontato il problema della censura al docufilm, e parlato di etica giornalistica, protezione delle fonti e degli informatori, dibattito da cui è emerso che Ito avrebbe mancato di ottenere il consenso delle parti coinvolte, procurando loro problemi perché apparse nel film. Ci si aspettava però di poter almeno visionare il docufilm e invece non è successo, e la stessa Ito non c’era per “problemi di salute”.

“Mi sono spinta al limite nelle riprese di questo documentario. Quando sono tornata all’hotel dove sono stata violentata, ho sentito che forse era troppo. Ma allo stesso tempo, il mio desiderio di cambiamento e di raccontare questa storia mi ha tenuto in vita. Una scatola nera è un sistema il cui funzionamento interno è nascosto o non facilmente comprensibile. Il Giappone è una terra di scatole nere e ho imparato cosa succede in questa società quando si inizia ad aprirle” scrive Ito a corredo del docufilm. Sembra che questa e altre storie di violenza sulle donne non possano mai essere rese pubbliche per quello che sono state. Ito non avrebbe potuto proporre interviste o scene come quelle riprese dalle telecamere esterne dell’hotel di Tōkyō che mostrano la ragazza uscire dal taxi trascinata semi-svenuta da Yamaguchi e consegnate dalla dirigenza dell’albergo solo per il loro utilizzo in tribunale.

Si contestano frasi inserite nel film, pronunciate dall’avvocata Nishihiro, che non era stata avvisata, causandole stress, così come altre testimonianze i cui autori non desiderano essere citati. “Ci sono persone che continuano a negare la violenza sessuale, e sono anni che mi chiedo cosa fare con il materiale raccolto. Per far emergere questa realtà che è stata chiusa a chiave dentro una black box, ho pensato fosse essenziale usare le immagini che ho a disposizione”, si è letto in una dichiarazione inviata dalla giornalista. Nella stessa, Ito chiede scusa alle persone che non avrebbe potuto citare, e promette di editare un nuova versione in cui evitare di far riconoscere alcune persone.

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Il Fatto Quotidiano

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