Big Tech e tasse: così Google, Amazon, Apple, Meta, Microsoft e Netflix hanno “risparmiato” 278 miliardi in 10 anni
- Postato il 15 aprile 2025
- Economia
- Di Il Fatto Quotidiano
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Alphabet/Google, Amazon, Apple, Meta/Facebook, Microsoft e Netflix, le sei maggiori aziende tecnologiche Usa, nell’ultimo decennio hanno eluso imposte per 277,8 miliardi di dollari. È questa, secondo un rapporto della Fair Tax Foundation, la differenza tra le aliquote fiscali nominali che sulla carta si applicano a tutte le altre società e le cifre effettivamente versate all’erario da quelle che la fondazione definisce “Silicon six“, il cui fatturato annuo di 1.800 miliardi di dollari è superiore al pil di quasi tutti i Paesi del mondo. Nel periodo 2015-2024 le sei Big tech – che lo scorso anno, en passant, hanno speso 115 milioni di dollari in attività di lobbying negli Stati Uniti e in Ue – hanno registrato ricavi per 11mila miliardi e profitti per 2.500 miliardi. E questi ultimi sono stati tassati con un’aliquota media globale pari solo all’18,8% nonostante quella ufficiale fosse in media del 29,7% negli Stati Uniti e del 27% a livello mondiale. Se non si considerano le tasse pagate su utili esteri rimpatriati, frutto di pregressa elusione fiscale, l’aliquota effettiva scende addirittura al 16,1%.

Ulteriore tassello: nonostante quasi la metà dei loro ricavi (49%) sia realizzata dall’estero, solo il 36% dei profitti è contabilizzato fuori dai confini statunitensi e solo il 30% degli accantonamenti fiscali correnti è dichiarato come “estero”: dunque il livello delle imposte pagate all’estero è ancora più basso. Risultati che portano l’associazione non profit a concludere che le pratiche fiscali aggressive “sono ancora oggi fortemente radicate” nel modello di business del comparto tech. Lo dimostra anche il fatto che, sempre guardando agli ultimi dieci anni, le posizioni fiscali che le stesse aziende indicano a bilancio come “incerte” sono triplicate da 24,8 a 82,5 miliardi. Si tratta di benefici fiscali che hanno richiesto ma che ritengono probabile poter perdere in caso di audit da parte delle autorità fiscali.
Interessante, mentre Donald Trump a colpi di dazi ritiene di poter annullare il deficit commerciale Usa causato a suo dire da “pratiche scorrette” degli altri Paesi, il fatto che una delle ragioni della bassa contribuzione fiscale delle Silicon six sia la detrazione fiscale concessa alle società statunitensi che generano redditi da beni immateriali (intangibles) come brevetti, software, marchi e know-how quando quei redditi derivano da clienti esteri. Introdotta nel 2017 con il Tax Cuts and Jobs Act della prima presidenza Trump, consente alle Silicon Six di pagare su quegli utili solo il 13% di imposta e ha quindi consentito loro di risparmiare 30 miliardi negli ultimi tre anni. Secondo l’Ocse è una sovvenzione sleale e distorsiva che favorisce indebitamente le aziende Usa. E in più favorisce anche l’elusione fiscale interna perché le aziende fanno passare artificialmente molti ricavi come “foreign-derived” per goderne.
La classifica aggiornata al 2025 delle Silicon Six in termini di peggiore condotta fiscale resta la stessa del 2019 e 2021, anni in cui la fondazione ha pubblicato rapporti analoghi: Amazon al primo posto con soli 38,6 miliardi pagati nell’ultimo decennio a fronte di 197,1 miliardi di profitti (vedi tabella), seguita da Meta (Facebook), Alphabet (Google), Netflix, Apple e Microsoft al sesto posto.
Come è noto, dallo scorso anno la Ue, così come il Regno Unito, il Giappone, la Sud Corea e l’Australia, applica la global minimum tax, un accordo internazionale negoziato in sede Ocse e approvato da oltre 140 paesi che prevede un’aliquota minima del 15% sui profitti delle multinazionali con fatturati superiori a 750 milioni di euro/dollari. Il report si riferisce al periodo precedente la sua entrata in vigore effettiva, che comunque non risolve il problema perché gli Usa non hanno ratificato l’intesa e perché in partenza la tassa minima globale consente molte scappatoie per cui le Silicon six possono continuare a strutturare i profitti per minimizzarne l’impatto. Washington dal canto suo applica la cosiddetta Gilti – global intangible low-taxed income – che ha però un’aliquota ancora più bassa, tra il 10,5 e il 13,1%. La Corporate Alternative Minimum Tax del 15% prevista dall’Inflation reduction act di Joe Biden non ha invece avuto alcun impatto sulle Silicon Six.
L’unica via di uscita secondo la Fair Tax Foundation passa per una maggiore trasparenza finanziaria: prioritaria la rendicontazione pubblica paese per paese (pCbCR) da parte delle grandi multinazionali, che propizia una riduzione del ricorso a paradisi fiscali e del trasferimento di profitti e un aumento delle aliquote fiscali effettive e delle entrate fiscali nazionali. L’Unione europea e l’Australia hanno introdotto forme di rendicontazione paese per paese obbligatoria che coinvolgeranno anche le Silicon Six. La ricetta si completerebbe, negli auspici della fondazione, con lo stop all’agevolazione fiscale Usa sui redditi intangibili accompagnato da una improbabile (Trump tra i primi atti della presidenza ha rinnegato l’accordo Ocse) adozione della tassa minima globale del 15%. Gli altri Paesi dovrebbero poi sviluppare “risposte adeguate” per garantirsi un contributo fiscale più equo da parte di Big tech. Stando a indiscrezioni, Bruxelles ha valutato anche una web tax sui ricavi da servizi digitali tra le eventuali ritorsioni ai dazi reciproci Usa al momento sospesi. Apple e Meta attendono nel frattempo la decisione della Commissione Ue sulle eventuali multe per violazione delle leggi digitali dell’Unione europea. L’impressione è che la responsabile della concorrenza Teresa Ribera stia prendendo tempo per evitare di interferire con i negoziati sui dazi, dopo che Trump ha bollato il Digital markets act come una “estorsione” ai danni delle aziende americane e minacciato tariffe aggiuntive in risposta.
Grafico in evidenza di Fair tax foundation, modificato con AI
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