Big Bang, il reggente del clan minacciava il figlio del pentito
- Postato il 25 novembre 2024
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Il Quotidiano del Sud
Big Bang, il reggente del clan minacciava il figlio del pentito
Nei motivi della sentenza Big Bang valorizzate le minacce del reggente del clan Mannolo al figlio del pentito: «Meglio rotto che morto».
CUTRO – «Pubblica abiura», attraverso la fuoriuscita dal programma di protezione, o «rovina della famiglia». Perché è «meglio rotto che morto». Una cosa rotta, almeno, la puoi aggiustare. Questo il senso delle minacce “velate” rivolte, in un momento di particolare fibrillazione per la cosca di San Leonardo di Cutro legato al pentimento di Dante Mannolo, a suo figlio Alfonso, che già si trovava nella località protetta e veniva invitato in maniera pressante a far «cambiare idea» al padre. Il ragazzo porta lo stesso nome di suo nonno, il patriarca della nota famiglia di ‘ndrangheta. Era questa la strategia per indurre il collaboratore di giustizia a «tornare sui suoi passi».
A veicolare le minacce al ragazzo, peraltro suo nipote, sarebbe stato Mario Scerbo, cognato del pentito. Scerbo, infatti, anche in virtù di intrecci parentali, avrebbe assunto un ruolo apicale nel clan nella fase focalizzata dall’inchiesta che nel 2021 portò all’operazione Big Bang. Lo si ricava dalle motivazioni della sentenza con cui la Corte d’Appello di Catanzaro ha inflitto 12 condanne alla cosca che, pur stanziata nella frazione costiera di Cutro, si proiettava più a sud seminando il terrore nella fascia jonica catanzarese imponendo estorsioni e usura.
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“BIG BANG”, GUARDIANO DEL TESORO
C’è tutto un gruppo di intercettazioni che evidenzierebbero non solo l’inserimento nella cosca di Scerbo, figlio di Pietro, ex contabile del clan, ma anche la strategia intimidatoria per scongiurare le rivelazioni della gola profonda. Secondo i giudici, che non hanno condiviso la tesi degli avvocati difensori Luigi Falcone e Francesco Gambardella, non è vero che, dopo l’uccisione del figlio Francesco, avvenuta per mano di sicari, in pieno giorno, nell’agosto 2004, nel villaggio turistico di cui la vittima era guardiano, Pietro Scerbo (di recente scomparso) si era “ritirato”.
Piuttosto, è in ragione dell’età anagrafica che un ruolo centrale lo avrebbe assunto suo nipote Mario, per esempio prendendo, al posto del cugino Francesco, le redini nel settore delle estorsioni e dell’usura ai danni di alcuni imprenditori. I giudici rilevano piuttosto che il pentito è “reticente” quando afferma che suo cognato è uno che “lavora”, anche alla luce delle denunce delle vittime che attribuivano caratura criminale a Scerbo, condannato a 13 anni e mezzo di reclusione pur con lo sconto pena di un terzo previsto dal rito abbreviato.
Non ci sono soltanto i messaggi del coimputato Martino Sirelli, l’ex dj di Sellia Marina, che definiva Scerbo “guardiano generale del tesoro”, “grande capo” o “boss” dopo gli arresti nell’operazione Malapianta, che avevano decapitato la cosca sanleonardese. Ma anche il comportamento tenuto da Scerbo dopo la notizia della collaborazione con la giustizia da parte del figlio del boss.
“BIG BANG”, SOTTO OSSERVAZIONE
Una notizia shock. Appresa la quale, Scerbo avrebbe compiuto una serie di passaggi nelle abitazioni dei Mannolo e avrebbe chiamato a raccolta i parenti affiliati. Ma soprattutto avrebbe fatto telefonate al nipote per convincerlo a non aderire alla scelta del padre rinunciando al programma di protezione. Del resto, Scerbo, fratello di Pietruzza, moglie del pentito, anche lei coinvolta nelle inchieste sul clan e poi ammessa alla protezione, era presente nel momento in cui i nipoti lasciavano la loro abitazione per raggiungere la località remota. «La notizia che i nipoti avessero aderito al programma di protezione – scrivono i giudici – era accolta negativamente da Mario Scerbo, il quale mostrava di essere consapevole che una scelta del genere, oltre ad allontanare per sempre la sorella e i nipoti dalla famiglia di origine, avrebbe arrecato pregiudizio al clan a base familiare, che sarebbe stato posto sotto “osservazione” delle ‘ndrine alleate».
CANCELLATI DALLA FAMIGLIA
Anche durante le visite in carcere, oltre che nelle telefonate col nipote, «Scerbo non esitava a rappresentare, enfatizzandole, le difficoltà a cui i due nipoti e la sorella sarebbero andati incontro con la loro scelta. E, soprattutto, «ribadiva al nipote che la famiglia li avrebbe sostenuti soltanto se si fossero dissociati e fossero tornati a casa, invitandoli a far desistere Dante Mannolo dalla sua intenzione». La Corte osserva che Scerbo è ben «lungi dal manifestare solidarietà familiare» alla sorella e ai nipoti «nel momento in cui si apprestavano ad una scelta di campo coraggiosa e difficile». Piuttosto, non faceva altro che «rappresentare come la famiglia (e lui per primo) avrebbe reagito sostanzialmente cancellandoli se fossero andati avanti nella scelta e cercava in tutti i modi di far leva sui nipoti per far desistere Dante Mannolo dalla decisione che poteva polverizzare l’associazione, già provata dagli arresti ma non ancora disarticolata».
Scerbo manifestava anche «timori di vendette» da parte della famiglia alleata degli Zoffreo. Un’altra sorella di Scerbo è sposata con Carmine Zoffreo, infatti. E quella scelta rischiava di “ammazzarli emotivamente” perché per tutta la famiglia sarebbe stato un “inferno”.
IL COLLOQUIO COL NIPOTE
«Emblematico», secondo i giudici, è il colloquio di Mario Scerbo col nipote che già si trovava nella località protetta. «Il nostro consiglio è quello ma ve ne tornate a casa… perché se ve ne tornate voi, se ne ritorna tua mamma e se ne ritorna anche tuo padre… poi siete grandi e vaccinati… sapete quale strada intraprendere… noi sicuramente non vi vogliamo male… vi diamo questa strada che è la migliore di tutte… non penso che quelli che offrono altre strade vi vogliono più bene… valutate bene la situazione… parlate con mamma, parlate con papà… non mi sembra che la vostra sia una condizione idilliaca». E ancora: «devi parlare con papà per farlo ragionare».
“BIG BANG”, MEGLIO ROTTO CHE MORTO
Quando il nipote replica: «lo dovevano fare prima, non ora», Scerbo ribadisce: «Alfonso, lo puoi fare ancora. Meju ruttu e non mortu. Così si dice delle cose rotte. ‘A conzi (La aggiusti, ndr) e la usi». Il figlio del pentito insiste: «Ormai lui ha collaborato, se ritratta non si risolve niente». E Scerbo: «ti hanno detto che non risolve niente, anche se ritratta, ma non è la verità. Chi ha convinto tuo padre “mu zumpa” (a saltare il fosso, ndr), ha un punto di vista, noi ne abbiamo un altro, la giurisprudenza ne ha un altro.
La verità naviga nel mezzo, non da una parte o dall’altra». Le pressioni sono continue: «tua madre ha dato disponibilità a cambiarlo tuo padre, non è che ha seguito tuo padre, perché voi siete nel programma di protezione, però se voi riuscite a mettere i bastoni tra le ruote a tuo padre, a fargli cambiare idea, tua madre è dalla parte vostra e tuo padre tornerà sui tuoi passi. E non gli possono fare niente perché prima che venga giudicato attendibile può far cadere tutte le accuse». E ancora: «Ognuno fa le sue scelte, giuste o sbagliate che siano, e si accettano le conseguenze con oneri e onori. Poi se c’è una speranza di sanare la situazione ci proviamo».
MAI PIÙ RITORNO A CASA
E se il giovane Alfonso Mannolo, allora poco più che ventenne, ipotizza che se suo padre non potrà più tornare a casa, a San Leonardo di Cutro, in quel piccolo borgo che si affaccia su un golfo che è un incanto, i suoi familiari potranno tornare quando vogliono dopo il cambio delle generalità, suo zio lo redarguisce. «Ma tu sei scemo? Tuo padre vuole diventare pentito e tu sotto protezione pensi di tornare qua? Chi te l’ha detto? In quale futuro? Quando gli altri saranno tutti morti e tu avrai 90 anni? Se esci dal programma di protezione potrai tornare quando vuoi. Se l’accetti è impossibile. Non potrai neanche passarci con la macchina. Se ti vede qualcuno che ha il padre in galera che fa, ride? I figli dei pentiti qua ci sono, e vivono felici e contenti la loro vita, ma non hanno accettato la protezione».
Scerbo fa riferimento ai parenti di Giuseppe Liperoti e Salvatore Cortese, gole profonde della cosca Grande Aracri di Cutro, da cui quella di San Leonardo dipendeva «funzionalmente». Siamo nella fase in cui il boss Nicolino Grande Aracri aveva costituito una “provincia” di ‘ndrangheta i cui tentacoli avviluppavano mezza Calabria e si allungavano fino al Nord. I figli degli altri pentiti, infatti, si sono dissociati dalla scelta del padre e «abitano a Cutro perché sono usciti dalla protezione dopo un mese».
Il codice ‘ndranghetistico viene riaffermato. Ed è chiarissimo. Prevede la cancellazione dalla memoria collettiva per chi collabora con la giustizia e spezza la catena dell’omertà.
Il Quotidiano del Sud.
Big Bang, il reggente del clan minacciava il figlio del pentito