Bambine
- Postato il 17 settembre 2025
- Di Il Foglio
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Bambine
Ci sono romanzi che riletti a distanza di anni – e a maggior ragione ripubblicati dopo più di tre decenni, come Bambine di Alice Ceresa (Einaudi, 1990; Edizioni Casagrande 2025) – mostrano che la letteratura può avere un tempo. Nel senso che in essi possono essere riconoscibili fulcri d’interesse o vie di ricerca tipici di un’epoca che non è questa. O che quantomeno le mode, anche in ambito letterario, esistono eccome.
Con questo testo breve e sperimentale – che a tratti suona distopico proprio per l’approccio con cui la scrittrice sceglie di raccontare, anche quando in realtà ricostruisce quanto di più immanente e conosciuto ci sia, ossia la famiglia – Ceresa conduce un esperimento in camera controllata. Prendi una donna e un uomo del Dopoguerra, falli figliare, isolali in un “nucleo sottovuoto” e studia il loro “vivere materiale” parcellizzando il loro muoversi e pensare in “operazioni infinitesimali”. Ne esce fuori Bambine (l’autrice avrebbe voluto intitolare La cacciata dal paradiso), che le vale anche un premio letterario, e che va nel mondo con questo titolo perché oltre a “padre” e “madre”, rigorosamente senza nome, ci sono anche due “bambine” appunto, la cui crescita è studiata in vitro. “Minore” e “maggiore” sono diverse pur se educate allo stesso modo (non è forse stato questo a lungo argomento dibattuto: vale più la cultura o l’indole?), crescono in relazione ai propri genitori e solo infine si scoprono nel mondo. Ceresa ci racconta le “pesanti ipoteche imposte dalla modalità di riproduzione della specie” e chiosa: “Ma forse è proprio questa l’anima della famiglia, ogni volta iniziata da capo e combinata diversamente, determinando legami indelebili almeno fino alla prossima e futura generazione”. Tornano a galla nelle bambine, ora nell’una ora nell’altra, somiglianze paterne (i piedi, il naso), scomparendo chissà perché la madre, e nei comportamenti si cercano segni delle manovre genitoriali, distanze e vicinanze cercate e rifuggite, modelli di maschio e di femmina che invero forse non incidono – infine – per nulla. Nasce anche un fratellino, che presto muore, lasciandole principesse di una “casa maschile dalla quale nulla di buono potrebbe mai giungere”.
Lo si è definito femminista il romanzo di Ceresa, ma ora forse non lo parrebbe poi così tanto. Colpisce il voluto distacco con il cui il narratore si fa impersonale, con cui osserva e riporta. Cosa vuole davvero scoprire l’autrice? O cosa vuole dimostrare?
Una storia di famiglia senza nomi, con “padre”, “madre”, “maggiore” e “minore” l’ha scritta di recente anche l’esordiente Michele Ruol, in finale allo Strega, e si coglie subito la diversità tra i due: se appunto non è moda, è spirito del tempo. Ma tutto merita di essere conservato, e riletto.
Alice Ceresa
Bambine
Casagrande, 144 pp., 20 euro