Ayatollah e opposizione iraniana: perché il regime non crolla ancora
- Postato il 5 luglio 2025
- Di Panorama
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«Siamo iraniani liberi. Il regime islamico sta occupando da 46 anni il mio Paese. La famiglia, composta da militari che avevano servito la monarchia, ha perso tutto. Mia madre vive ancora in Iran e per andare a lavorare le hanno imposto il velo» racconta a Panorama Azadeh Irajrazavi. Ingegnere informatico che vive a Lecco, i fine settimana partecipa alle proteste davanti al consolato iraniano a Milano. «Non credo che la tregua reggerà a lungo. Israele continuerà a indebolire il regime» commenta. «La speranza è che il sistema di Khamenei crolli per far sbocciare la democrazia». Alla stesura di questo articolo il presidente americano Donald Trump ha annunciato un cessate il fuoco, traballante fin dall’inizio, nella guerra scatenata da Israele contro l’Iran con l’operazione «Leone nascente». La filo monarchica Irajrazavi sostiene che «il leone è il simbolo della Persia, della rinascita del nostro Paese. Non finiremo come l’Afghanistan o la Libia. Ci libereremo del regime islamico». Lo stesso Trump ha lanciato lo slogan “Make Iran great again” replicando la sua frase simbolo sull’America di nuovo grande. Poi ha fatto marcia indietro spiegando che se reggesse la tregua «non voglio un cambio di regime perchè crea solo caos».
Tiziano Marino, analista dell’Iran per il Ce.S.I. – Centro Studi Internazionali osserva che «dentro l’Iran non si registrano segnali di un’opposizione organizzata con leader riconosciuti». Nei primi giorni di bombardamenti israeliani, Barzan, residente in Inghilterra, era andato a trovare i familiari a ovest di Teheran. E raccontava a Panorama che «gli iraniani non ne possono più degli ayatollah. Vogliono la caduta del regime, ma hanno paura. Maledicono gli israeliani perché a nessuno piace venire bombardato. Subito dopo si scatenano contro il sistema. Però non osano scendere in piazza perché la repressione sarebbe durissima».
Il 23 giugno i caccia israeliani hanno colpito il portone del famigerato carcere di Evin, nella capitale, per dare un segnale simbolico di supporto ai 15 mila detenuti, in gran parte oppositori politici. Jonathan Peled, ambasciatore israeliano in Italia, ha scritto un post di fuoco: «@amnestyitaly è “estremamente sconvolta” da un presunto attacco al carcere di Evin – simbolo della brutale repressione in Iran. Quando però l’Iran ha lanciato un missile balistico sull’ospedale Soroka in Israele (…) non ha detto nulla. Dov’era la loro indignazione allora? Non si tratta di diritti umani. Si tratta di politica».
Se per ora in Iran scendono in piazza solo i sostenitori del regime, all’estero è sul piede di guerra una variegata e frammentata opposizione, anche armata, alla Repubblica islamica. «Tutti gli attori esterni, comprese le minoranze, dai curdi ai beluchi, possono contare qualcosa solo in uno scenario di caos totale e frammentazione del Paese. Si aprirebbe il vaso di Pandora, e sarebbe veramente preoccupante. Si rischia di andare a finire come la Libia o il primo periodo dell’Iraq, dopo la caduta di Saddam, quando è nato l’Isis» fa notare Marino.
I curdi iraniani si sono organizzati da anni con partiti e costole in armi nel Nord dell’Iraq, che confina con l’Iran. I tre gruppi anti-ayatollah più noti sono il Partito democratico del Kurdistan iraniano, il Partito per la Vita libera e il movimento Komala, che ha delle basi vicino a Sulaymaniyah ad un’ora di macchina dall’Iran. «Komala si oppone al regime da oltre 30 anni. Se il regime non cade continuerà ad arricchire l’uranio (che potrebbe servire a produrre la bomba, ndr) e la regione rimarrà instabile» dichiara Kako Alyar, che fa parte dell’uffico politico del movimento curdo. «Combattiamo per i nostri diritti» aggiunge «e se ci sarà l’opportunità entreremo in Iran per partecipare alla rivolta».
Abdullah Mohtadi, il leader di Komala, formazione socialdemocratica, è volato a Washington dopo l’inizio dei bombardamenti israeliani.
Dai primi giorni dell’offensiva aerea dello Stato ebraico è stato molto attivo Reza Pahlevi, figlio dell’ultimo Scià di Persia costretto alla fuga dalla rivoluzione islamica del 1979. Il principe, che vive in esilio negli Stati Uniti, ha lanciato video messaggi rivolti alle forze armate iraniane invitando alla ribellione. «So che questi ufficiali, questi soldati, questi uomini coraggiosi esistono, perché mi contattano per dirmi che vogliono far parte della salvezza della nazione» ha dichiarato Pahlevi. «Khamenei, dimettiti. Le fondamenta di questa tirannia stanno crollando. Questo è il nostro muro di Berlino». Il principe, che due anni fa ha visitato Israele incontrando il primo ministro Netanyahu e il presidente Herzog, sostiene di avere pronta «una tabella di marcia per la transizione democratica e ricostruzione del Paese».
Il generale della riserva Francesco Ippoliti, ex consigliere militare a Teheran, sostiene che «in questo momento la rivolta interna è improbabile. Le bombe hanno risvegliato lo spirito patriottico persiano attorno alla bandiera. Il figlio dello Scià sa ben poco dell’Iran ed è ancora vivo il ricordo di suo padre scappato con casse piene d’oro». Per Ippoliti «gli iraniani non vogliono finire come la Siria, ma esistono spinte irredentiste dei curdi a Ovest e dei beluchi, arabi e sunniti, a Est. Anche i Mujaheddin del popolo, di origine comunista, stanno rialzando la testa».
Nella mappa dell’opposizione all’estero l’Organizzazione Mujaheddin-e Khalq, nata nel 1965, che appoggiò all’inizio la rivoluzione islamica, ha pagato l’appoggio a Saddam Hussein nella guerra contro l’Iran degli anni Ottanta. Specializzati in attentati avevano gravemente ferito la futura guida suprema, Alì Khamenei, nel 1981. Le redini del gruppo sono passate alla moglie del fondatore, sparito nel nulla, Maryam Rajavi, che guida il Consiglio nazionale della Resistenza iraniana, molto attivo in Occidente. Nel 2002 proprio i Mujaheddin avevano rivelato per primi il programma nucleare iraniano dell’arricchimento dell’uranio. Il 18 giugno la pasionaria, invitata al Parlamento europeo di Strasburgo, ha dichiarato che «la soluzione a questa crisi, per una pace e sicurezza durature (in Medio Oriente, ndr), risiede nel rovesciamento del regime da parte del popolo iraniano e della sua resistenza. Il nostro obiettivo è prendere il potere a qualsiasi costo».
Nella galassia dell’opposizione spuntano anche gli irredentisti beluchi. L’istituto di ricerca Memri ha pubblicato la foto di Hyrbyair Marri, il leader del movimento laico Free Beluchistan con la bandiera di questo territorio diviso fra Iran e Pakistan e quella israeliana. «Il nostro popolo ha patito a lungo il colonialismo iraniano» si legge nel comunicato irredentista, che appoggia l’attacco dello Stato ebraico. I beluchi sunniti hanno risposto anche alle sirene jihadiste in funzione anti sciita del regime iraniano. Il 18 giugno il gruppo Jaish al-Adl, che lotta per l’indipendenza e unificazione del Sistan Beluchistan iraniano con la parte pachistana, ha lanciato un appello alla rivolta su X. «Invitiamo la popolazione a unirsi alle fila della resistenza per spianare la strada verso la libertà e la dignità» recita l’agguerrito post. I caccia pachistani hanno già bombardato i rifugi dei militanti dell’Esercito di liberazione dei beluchi in Iran.
Un cambiamento, per ora, può scaturire solo dall’interno del sistema. Non è un caso che la decapitazione dei vertici dei Pasdaran realizzata dal Mossad e dai caccia israeliani abbia colpito soprattutto la vecchia guardia attorno a Khamenei. La seconda generazione dei Pasdaran potrebbe mettere da parte il potere teocratico con un colpo di mano interno per instaurare una repubblica presidenziale simile a quella del generale Al Sisi in Egitto. L’analista Marino spiega che solo «se continuassero i bombardamenti soprattutto sui siti energetici, mettendo ancora più in difficoltà l’economia iraniana, si può immaginare un colpo di palazzo. Un generale dei Pasdaran che prenda il potere mettendo da parte il clero, ma poi è tutto da vedere se avrà un atteggiamento più morbido».