Avvoltoi
- Postato il 31 dicembre 2025
- Di Il Foglio
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Avvoltoi
"Io non ero una corrispondente. Ero al massimo una collaboratrice freelance, che nessuno si sarebbe mai sognato di mandare a godersi una guerra, spesata in un albergo a quattro stelle. Ma il 14 novembre del 2012, quando il vicecomandante delle brigate di Hamas, Ahmed al Jabari, fu liquidato da un drone Predator israeliano mentre era in macchina per tornare a casa dalla moglie per cena, il pluripremiato corrispondente dal Medio oriente del Tribune Anthony Harper si trovava a seicento chilometri di distanza, aggregato alle forze governative nei pressi di Idlib. Perciò toccò a me, la freelance Sara Byrne, essere spedita dal mio monolocale ingiallito a Gerusalemme ovest fino alla stanza 22 del The Beach Hotel, con la sua vista a perdita d’occhio sul mare e cabina idromassaggio inutilizzabile”. Inizia così "Avvoltoi", l’incendiario esordio della giornalista britannica Phoebe Greenwood, non un libro qualunque ma più un ordigno piazzato sul comodino dell’occidente, pronto a esplodere in faccia a chiunque creda ancora che il giornalismo di guerra sia un mestiere romantico, fatto di giubbotti antiproiettile, whisky d’albergo e verità universali sussurrate tra le macerie. Greenwood, corrispondente freelance da Gerusalemme per il Guardian, il Daily Telegraph, il Sunday Times e esperta di politica estera, sa di cosa parla: dimenticate gli eroi coi taccuini Moleskine, gli Hemingway di seconda mano che bevono bourbon mentre battono il pezzo definitivo sulla condizione umana; piuttosto siamo più dalle parti di Evelyn Waugh, ma senza la distanza coloniale e con molto meno divertimento. Qui non c’è nessun mito da lucidare, solo un’industria famelica con il sorriso stampato e il conto spese in mano. Greenwood, che quelle stanze d’albergo le ha respirate sul serio, mette in scena Gaza 2012 come un luna park apocalittico: fuori le esplosioni, dentro il Beach Hotel, con il buffering infinito, le prese multiple, i cavi che serpeggiano sui pavimenti e un’umanità di reporter, cameraman, fotografi e fixer che sembrano usciti da un casting per un Fear and Loathing mediorientale girato con budget ridotto ma altrettanto gonzo. Sara Byrne, al centro di questo acquario malsano, ambiziosa, impreparata, vulnerabile alle lusinghe della redazione e alla promessa implicita dello scoop, imparerà in fretta le regole non scritte del mestiere. Un mestiere che esplode, mentre tutt’intorno la guerra viene vissuta come una zona di comfort controllata, ridotta a un mero parco tematico dell’orrore in cui entrare e uscire con il passaporto giusto.
Phoebe Greenwood
Avvoltoi
Edizioni E/O, 336 pp., 19 euro