Aumento della pressione fiscale, perché la spiegazione di Meloni non regge e da cosa può dipendere il dato che imbarazza il governo

  • Postato il 11 marzo 2025
  • Economia
  • Di Il Fatto Quotidiano
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No, il buon andamento dell’occupazione e quindi dei redditi da lavoro non giustifica la crescita della pressione fiscale registrata dall’Istat nel 2024. La “spiegazione” della premier Giorgia Meloni, secondo cui le entrate fiscali e contributive in rapporto al pil sarebbero aumentate “perché c’è più gente che lavora”, non regge alla prova dei numeri. Ma allora a cosa si deve l’esplosione del peso del fisco, passato dal 41,4 al 42,6% dopo due anni di discesa? La realtà è che al momento non c’è una spiegazione univoca. L’interpretazione è molto complessa perché deve tener conto da un lato dell’andamento delle imposte dirette, indirette e in conto capitale e dei contributi (il numeratore), dall’altro dell’evoluzione del pil (il denominatore) e delle sue componenti. Un peso sembra averlo avuto la maxi inflazione che tutta Europa ha conosciuto a partire dall’invasione russa dell’Ucraina.

Perché la spiegazione di Meloni non sta in piedi – La premier si è arrampicata sugli specchi per smentire che con lei a Palazzo Chigi le tasse siano aumentate. Un dato che mal si concilia con le promesse del centrodestra, ora atteso al varco dalla più volte annunciata riduzione dell’Irpef al ceto medio. La settimana scorsa Meloni ha detto che il balzo della pressione fiscale è dipeso dal boom degli occupati: “Se c’è un percettore di reddito di cittadinanza e invece di percepire il reddito di cittadinanza quella persona trova un posto di lavoro, pagando le tasse aumenta la pressione fiscale”. Come ha fatto notare l’economista Alessandro Santoro su Domani, è in effetti vero che se l’economia sommersa (un ex percettore che faceva qualche lavoretto in nero) emerge (quella stessa persona viene assunta con contratto regolare) la pressione fiscale apparente cresce, perché aumentano le tasse pagate mentre il pil, che già comprende il sommerso, non si muove. Alla prova dei numeri dell’Istat, però, questa ipotesi non regge. Moltiplicando gli occupati a tempo pieno del 2024 per il prelievo fiscale pro capite dell’anno prima, ne esce un gettito pari a solo il 41,1% del pil 2024. Tradotto: il solo aumento degli occupati, ipotizzando che siano stati tutti assunti regolarmente, avrebbe fatto scendere – e non salire – la pressione fiscale.

Ricompare il drenaggio fiscale – Perché allora l’aumento? Guardando al numeratore, le imposte dirette e indirette lo scorso anno hanno superato i 652 miliardi dai 613 dell’anno prima. Il bollettino delle entrate del dipartimento Finanze del Mef mostra come il contributo percentuale maggiore a quell’aumento sia arrivato da una voce legata all’andamento dei tassi di interesse, che la Bce a partire da luglio 2022 ha incrementato con l’obiettivo di contenere l’inflazione: le ritenute su interessi e premi corrisposti dalle banche sono saliti infatti del 328%. Ma in valore assoluto ha pesato soprattutto il buon andamento delle ritenute Irpef dei lavori dipendenti. Alcuni economisti lo riconducono, oltre che all’aumento dell’occupazione, a un fenomeno di cui non si sentiva parlare dagli anni Ottanta: il fiscal drag o “drenaggio fiscale”. In pratica è l’incremento del prelievo Irpef legato agli aumenti di reddito ricevuti per compensare la corsa dei prezzi. Visto che l’imposta è progressiva, il lavoratore che ottiene il rinnovo del contratto finisce per veder crescere il prelievo – in proporzione – più di quanto sia cresciuta la sua paga lorda e recupera così solo una parte del potere d’acquisto perso. Mentre lo Stato fa cassa raccogliendo gettito non “giustificato” dall’andamento del reddito reale dei contribuenti. L’effetto si fa sentire, in senso lato, anche in assenza di rinnovi contrattuali: se l’inflazione è alta il salario reale diminuisce, cioè il lavoratore si impoverisce, e a parità di potere d’acquisto paga più imposte di prima. Fino all’inizio degli anni Novanta, scaglioni Irpef e detrazioni venivano indicizzati proprio per scongiurare questo esito. Che ora si sarebbe riproposto, come sostengono tra gli altri Marco Leonardi e Leonzio Rizzo. Una tesi corroborata dall’andamento delle retribuzioni lorde, salite del 5,2% nel 2024 contro il +2,2% registrato dalle unità di lavoro.

I dubbi – Altri tecnici dei conti pubblici sentiti dal Fatto tendono invece a escludere che sia questo il caso: il fiscal drag in termini di aumento dell’aliquota media effettiva pagata dal lavoratore c’è stato, confermano, ma a riflettersi sul gettito e quindi sulla pressione fiscale è solo la parte che dipende da effettivi incrementi dei salari, che hanno riguardato solo quella quota di lavoratori per cui è stato rinnovato il contratto nazionale. In più, sottolineano, la riduzione del cuneo fiscale (decontribuzione) confermata a fine 2023 ha più che compensato l’incremento di imposta reale per i redditi sotto i 35mila euro. Ma quel beneficio è stato finanziato con le tasse versate dagli stessi lavoratori colpiti da una pressione fiscale superiore al dovuto, argomentano Leonardi e Rizzo. E chi guadagna più di quella cifra – il solito “ceto medio” – ha subìto una perdita secca.
Serviranno analisi più approfondite per una lettura univoca del dato. Di certo il governo non ha una spiegazione credibile per giustificarlo. Comprensibile l’imbarazzo di Meloni, che da parlamentare di opposizione aveva presentato una proposta di legge costituzionale per mettere un tetto legale alla pressione fiscale: “La legge determina il prelievo fiscale nel rispetto del principio che la pressione fiscale non deve superare il 40% del Prodotto interno lordo nazionale”.

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