Ankara, abbiamo un problema (energetico): così Erdogan sta mediando per assicurare il trasporto del petrolio

  • Postato il 27 giugno 2025
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Pur continuando ad accusare gli alleati statunitensi di aver attaccato uno stato sovrano, l’Iran, Ankara sta cercando di trarne vantaggio in ogni modo, usando la propria posizione geostrategica. Il governo turco, dominato dal partito della Giustizia e Sviluppo (Akp) del presidente-autocrate Recep Tayyip Erdogan, ha annunciato infatti di essere pronto a contrastare un eventuale blocco dello Stretto di Hormuz da parte del regime di Teheran qualora la disputa con gli Usa e Israele su dove sia finito l’uranio arricchito contenuto nel propri siti nucleari non venga risolta. La Turchia ha annunciato che potrebbe supplire alla chiusura del cruciale Stretto sul mar Rosso con forniture energetiche alternative da Iraq, Azerbaigian e Russia. Lo ha ribadito questa mattina il ministro dei Trasporti e delle Infrastrutture Abdulkadir Uraloğlu, intervenendo su CNN Türk. Uraloğlu ha delineato i piani per mitigare l’impatto dei conflitti regionali e promuovere importanti progetti di trasporto del greggio.

La settimana scorsa, in seguito alle prime voci di un possibile blocco di Hormuz, il prezzo del petrolio si era subito impennato del 15%. “La Turchia ne risentirebbe, ma abbiamo delle opzioni”, ha affermato Uraloğlu, citando il coordinamento con il ministero dell’Energia. Sebbene le interruzioni a breve termine siano gestibili, una chiusura prolungata metterebbe a dura prova le forniture.

I conflitti regionali che coinvolgono Israele, Iran e Stati Uniti hanno interrotto drammaticamente i viaggi aerei anche in Siria e in Iraq, bloccando i voli anche per e dalla Turchia. La chiusura parziale dello spazio aereo da parte dell’Iran, dopo aver colpito una base statunitense in Qatar, ha sospeso i voli commerciali, con conseguenti ripercussioni sul turismo e dunque sull’economia turca. La maggior parte degli spazi aerei sta riaprendo, ma quello iraniano rimane limitato.

La “Strada dello Sviluppo” – è questo il nome del corridoio ferroviario, stradale ed energetico di 1.200 chilometri dal porto iracheno di Faw alla Turchia per terminare in Europa – potrebbe ridurre la dipendenza dallo Stretto di Hormuz, se completata. Il progetto insomma mira a collegare l’Asia all’Europa attraverso la Turchia.

Il “Corridoio di Mezzo”, che collega la Cina all’Europa attraverso la Turchia, impiega 18 giorni per il trasporto delle merci ma l’ammodernamento e il suo completamento potrebbero ridurli a 15. Durante il forum globale, che verrà inaugurato domani (sabato) dal presidente Recep Tayyip Erdogan, si pianificheranno le risposte alla crisi con 70 Paesi.

Gli investimenti della Turchia nei trasporti, pari a 193,5 miliardi di dollari in 23 anni, dovrebbero rafforzarne il ruolo regionale. Un esempio, secondo le autorità turche, sono state le operazioni presso l’aeroporto di Damasco, iniziate lo scorso dicembre, che ha portato finora alla sostituzione dei sistemi radar obsoleti dello scalo principale siriano. Turkish Airlines ora opera 30 voli settimanali da Istanbul a Damasco. La Siria prevede sempre più voli per Istanbul, sfruttando gli 80 milioni di passeggeri annuali dell’aeroporto della megalopoli sul Bosforo.

Sullo sfondo, c’è però un problema rimasto finora irrisolto che rischia di mandare a monte i piani del Sultano per la sua vitale importanza.

Il primo ministro del Governo Regionale semi autonomo del Kurdistan (KRG) iracheno, Masrour Barzani, ha dichiarato che la sospensione delle esportazioni di petrolio attraverso la Turchia ha causato perdite per oltre 25 miliardi di dollari sia al KRG che al governo federale iracheno. Intervenendo a una conferenza stampa al termine di una riunione di gabinetto, Barzani ha osservato che il governo federale di Baghdad non ha ancora fornito alcun risarcimento alla popolazione curda. “Affinché le esportazioni possano riprendere, è necessario raggiungere accordi con tutte le parti, in particolare con le aziende coinvolte”, ha osservato.

Le esportazioni di petrolio attraverso l’oleodotto Kirkuk-Ceyhan (questo ultimo è il terminale turco) sono state sospese il 25 marzo 2023, a seguito di una sentenza della Camera di Commercio Internazionale (ICC) di Parigi. La Corte ha stabilito che la Turchia aveva violato un accordo del 1973 sull’oleodotto, consentendo al KRG di esportare petrolio indipendentemente dall’Organizzazione Statale per il Marketing del Petrolio (SOMO) di Baghdad.

Prima della sospensione, l’oleodotto trasportava circa 450.000 barili di petrolio al giorno. L’interruzione ha avuto significative conseguenze economiche, tra cui ritardi nel pagamento degli stipendi del settore pubblico nel KRG e una riduzione delle entrate nazionali per l’Iraq.

Sono pertanto ripresi gli sforzi per risolvere la controversia. All’inizio del 2025, il Parlamento iracheno ha approvato un emendamento al bilancio che fissava i costi di trasporto e produzione del petrolio in Kurdistan a 16 dollari al barile e imponeva al KRG di cedere la sua produzione di greggio alla SOMO. La piena ripresa delle esportazioni però deve ancora essere raggiunta a causa dei negoziati tecnici e politici in corso che coinvolgono Baghdad, Erbil (di fatto la capitale del Kurdistan iracheno, ndr) e Ankara.

La Turchia è l’unico Paese del quadrante mediorientale che non possiede né riserve naturali di gas né di petrolio che vengono importati soprattutto attraverso il corridoio energetico con il Kurdistan iracheno e con l’Iraq, che nel 2017 era riuscito a strappare alla propria regione semi-autonoma curda la provincia di Kirkuk, ovvero l’area con più gas al mondo in rapporto al numero di abitanti. Il clan Barzani, che si spartisce il controllo della regione semi-autonoma curda irachena con il clan Talabani filo iraniano, ha da sempre ottimi rapporti con la Turchia dell’era Erdogan.

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