Alta tensione tra Giappone e Cina su Taiwan: Pechino pronta a reagire. Dalle misure commerciali allo scontro armato: le opzioni
- Postato il 23 novembre 2025
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- Di Il Fatto Quotidiano
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I leader di Pechino lo avevano detto tante volte: Taiwan è la “linea rossa” da non oltrepassare. Sanae Takaichi quella linea l’ha scavalcata ampiamente quando il 7 novembre è diventata il primo capo di governo del Giappone a ipotizzare pubblicamente un intervento militare di Tokyo in caso di attacco armato contro l’isola che Pechino rivendica come propria. Quell’affermazione, pronunciata con troppa leggerezza, è diventata l’innesco della peggiore crisi diplomatica tra i due Paesi asiatici degli ultimi tredici anni. Una crisi che il governo cinese non è disposto a fermare senza prima ricevere scuse formali.
Cosa ha detto Takaichi?
Parlando davanti a una commissione parlamentare, la premier ha dichiarato che un’aggressione manu militari di Pechino contro Taipei costituirebbe una “situazione di minaccia alla sopravvivenza” del Giappone, che pertanto potrebbe impegnarsi in un’azione militare a fianco di Washington nello Stretto. Uno scenario consentito – nonostante la costituzione pacifista adottata dopo la Seconda guerra mondiale – grazie a una legge introdotta nel 2015 dall’ex primo ministro e mentore di Takaichi, Shinzo Abe. Mai prima d’ora un primo ministro giapponese in carica aveva utilizzato un linguaggio tanto esplicito su un possibile coinvolgimento a difesa di Taiwan. Nemmeno Abe, che prima di farlo aspettò di rassegnare le dimissioni. Con la lady di ferro, Tokyo si allontana così dalla tradizionale “ambiguità strategica”, postura che – nonostante le gaffe di Joe Biden – gli Stati Uniti continuano ufficialmente a rispettare non confermando né negando un eventuale supporto militare a Taipei. Inutili le rassicurazioni sul rispetto del principio “una sola Cina”. Dire che “la posizione del governo rimane coerente” – come spiegato dalla premier – non basta ad alleggerire il significato simbolico di quelle parole.
La risposta di Pechino
“Le dichiarazioni palesemente errate del primo ministro Takaichi su Taiwan hanno minato radicalmente le fondamenta politiche delle relazioni bilaterali, danneggiando gravemente gli scambi economici e commerciali”, ha dichiarato giovedì una portavoce del ministero degli Esteri cinese, preannunciando l’arrivo di “misure necessarie”. Alcune di quelle misure sono già visibili: Pechino ha sconsigliato ai cittadini cinesi di recarsi nel Paese per turismo e studio, mentre ha lasciato intendere di voler introdurre un nuovo blocco sulle importazioni di prodotti ittici giapponesi, imposto dopo il rilascio delle acque reflue di Fukushima e rimosso solo di recente. Cancellati inoltre eventi culturali e commerciali, rinviata l’uscita dei film giapponesi nei cinema. La prossima mossa – avvertono analisti e media statali – potrebbe includere restrizioni alle aziende giapponesi per motivi di sicurezza nazionale o persino un’interdizione alle forniture di terre rare, come avvenuto intorno al 2012, quando Tokyo nazionalizzò le isole Diaoyu/Senkaku contese con Pechino. Uno strappo costato il congelamento dei rapporti diplomatici per diversi anni.
Di questo passo, Tokyo rischia danni economici molto pesanti. La Cina è il secondo mercato per l’export del Giappone dopo gli Stati Uniti, con un volume di acquisti che nel 2024 ha raggiunto circa 125 miliardi di dollari tra attrezzature industriali, semiconduttori e automobili. Secondo il Nomura Research Institute, solo nel settore turistico nipponico – che rappresenta il 7% del pil nazionale – le perdite potrebbero raggiungere i 2mila miliardi di yen l’anno (14,3 miliardi di dollari).
Il pressing militare
Senza contare che le ritorsioni potrebbero debordare in una risposta militare, anche oltre ai consueti pattugliamenti nel mar Cinese orientale intorno alle Diaoyu/Senkaku. Solo nell’ultima settimana la marina di Pechino ha condotto esercitazioni nel mar Giallo, mentre il Giappone ha dichiarato di aver alzato in volo i propri aerei dopo aver individuato un sospetto drone cinese nei pressi dell’isola meridionale di Yonaguni, a soli 100 chilometri da Taiwan. E proprio ieri l’ambasciata cinese in Giappone ha citato su X una clausola contenuta nella Carta delle Nazioni Unite, secondo la quale “se uno qualsiasi dei Paesi fascisti o militaristi, come Germania, Italia e Giappone, adotta misure per attuare nuovamente politiche aggressive, i membri fondatori delle Nazioni Unite” – tra cui la Cina – “hanno il diritto di intraprendere direttamente azioni militari contro di loro senza l’autorizzazione del Consiglio di sicurezza”.
L’ira di Xi Jinping
La reazione di Pechino – particolarmente aggressiva anche per gli standard cinesi – trova spiegazione nel contesto delle più ampie tensioni storiche con il Giappone: quest’anno ricorre l’80° anniversario della fine dell’occupazione nipponica in Cina, celebrata da Xi Jinping con la parata militare del 3 settembre. Ma quella pagina della storia, che nella Repubblica Popolare è associata al massacro di Nanchino, in passato Takaichi ha cercato più volte di riscriverla. Non solo visitando il Santuario di Yasukuni in memoria dei criminali di guerra. Da parlamentare ha persino chiesto di ritrattare le scuse avanzate da Tomiichi Murayama, il primo leader giapponese ad aver ammesso nel 1995 la responsabilità per le atrocità commesse dall’esercito durante la Seconda guerra mondiale.
Dal passato al presente: dando sfoggio delle note credenziali nazionaliste, appena eletta il mese scorso, Takaichi ha confermato di voler portare la spesa militare del Giappone al 2% del pil entro il 2027, spingendosi anche a ritrattare il principio di “non introduzione” di armamenti atomici nel Paese nel quadro dell’alleanza con gli Stati Uniti che tanto preoccupa la Cina. E poi Pechino l’ha detto innumerevoli volte: Taiwan è una “questione interna”. Vale per Washington ma anche e soprattutto per il Giappone, che colonizzò l’isola nel 1895 prima di restituirla alla Cina cinquant’anni dopo.
Lo aveva ribadito a fine ottobre lo stesso Xi durante il primo incontro con Takaichi a margine dell’APEC in Corea del Sud. Al leader cinese deve essere parso un vero affronto personale vedere ignorare il suo avvertimento nemmeno una settimana dopo il meeting. Tanto più che l’oltraggio proviene da una donna. Come avvenuto con Nancy Pelosi, prima speaker della Camera Usa a visitare l’isola in 25 anni, le autorità cinesi hanno dimostrato una certa propensione all’ingiuria nei confronti di figure femminili ritenute ostili. Riferendosi a Takaichi in un post su X, il console cinese a Osaka, Xue Jian, ha scritto di non avere “altra scelta che tagliare senza esitazione quella testa sporca che si è intromessa”. L’ex direttore del Global Times l’ha chiamata addirittura “strega malvagia”.
La Cina chiude le porte al dialogo
Insomma, non sembrano proprio esserci le premesse per una tregua. Il primo tentativo di dialogo tra il capo del Dipartimento per gli Affari Asiatici, Liu Jinsong, e l’omologo giapponese, Masaaki Kanai, è stato definito dalla parte cinesi “molto insoddisfacente”. Escluso anche un possibile chiarimento tra Takaichi e il premier cinese Li Qiang a margine del G20 in corso a Johannesburg, in Sudafrica. Per Pechino, una risoluzione della crisi è contemplabile solo se la lady di ferro ritirerà quanto affermato, eventualità al momento estremamente remota. Takaichi deve la sua vittoria elettorale alla capacità di rappresentare le istanze più conservatrici del Partito Liberal Democratico, al governo quasi ininterrottamente dal dopoguerra ma che oggi fronteggia l’ascesa di una nuova destra radicale. E ha l’approvazione dei giapponesi. Secondo un sondaggio pubblicato domenica da Kyodo News, il 48,8% degli intervistati sostiene la posizione di Takaichi su Taiwan, mentre il 44,2% si dice contrario.
Il pericolo del nazionalismo
Come in altre circostanze, si affaccia il rischio che il vecchio rancore tra i due Paesi sfoci in episodi di nazionalismo violento, con atti vandalici contro aziende giapponesi e aggressioni fisiche. Nel 2012, fu il governo a riportare faticosamente la calma vedendosi sfuggire il controllo sul sentimento revanscista nutrito da una parte della popolazione. Ma oggi, nonostante il rallentamento dell’economia, la Cina si sente più forte, più sicura di sé. Una potenza alla pari degli Stati Uniti, come implicitamente ammesso da Donald Trump con il recente riferimento alla nascita di un G2. “La Repubblica popolare non è più il Paese povero e vulnerabile di un secolo fa, che poteva essere intimidito e calpestato a piacimento”, avverte un editoriale del China Military Online, sito collegato all’Esercito popolare di liberazione.
Sul web circola da giorni una foto di Liu Jinsong mentre sembra redarguire Kanai con indosso giacca e pantaloni del 4 maggio 1919, il movimento antimperialista di critica contro le richieste avanzate a Versailles dalle potenze vincitrici nella prima guerra mondiale. Tra queste la più spinosa prevedeva una consegna della provincia cinese dello Shandong dalla Germania al Giappone. Il post, diffuso da Yuyuan Tantian, un account social media gestito dall’emittente statale cinese CCTV, è stato cancellato poco dopo la pubblicazione.
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