Alla Corte Suprema Usa l’ordine di Trump di abolire lo ius soli: perché in ballo c’è soprattutto il potere assoluto (o no) del presidente
- Postato il 16 maggio 2025
- Mondo
- Di Il Fatto Quotidiano
- 1 Visualizzazioni
.png)
Pochi eventi, nella storia americana, possono essere paragonati per importanza e possibili conseguenze a quanto sta avvenendo in queste ore alla Corte Suprema. I nove giudici della Corte hanno infatti deciso di considerare un caso che riguarda il diritto di cittadinanza per nascita, lo ius soli. Il caso va però ben oltre la questione della cittadinanza. Il caso riguarda i poteri del presidente, in rapporto a quelli dei tribunali. Dovesse la Corte decidere a favore del governo, non ci sarebbe più alcun limite legale alla volontà di Donald Trump.
C’è un segnale significativo, che dà il senso della portata storica della decisione. Il caso è stato aggiunto al calendario dei giudici con procedura di emergenza, in un periodo, metà maggio, che è quello in cui la Corte ormai non accetta più nuovi casi ma si concentra sulle sentenze da emettere prima della pausa estiva. Apparentemente, il caso ha a che fare con la birthright citizenship, la cittadinanza per diritto di nascita. Donald Trump, con uno dei suoi primi ordini esecutivi, l’ha abolita. È stata una delle sue decisioni più controverse e scioccanti. Lo ius soli è uno dei pilastri del sistema legale, culturale, politico di questo Paese, iscritto nel 14esimo Emendamento, che recita: “Tutte le persone nate o naturalizzate negli Stati Uniti e sottoposte alla relativa giurisdizione sono cittadine degli Stati Uniti e dello Stato in cui risiedono”. Quindi: chi nasce sul suolo degli Stati Uniti – per qualsiasi ragione, caso o destino – è cittadino degli Stati Uniti. L’emendamento, approvato dopo la Guerra Civile, fu poi confermato in una storica decisione della Corte Suprema del 1898, la United States v. Wong Kim Ark, che stabilì che un uomo nato a San Francisco da genitori cinesi era cittadino statunitense.
L’ordine di Trump ha spazzato via oltre un secolo di storia e consuetudine giuridica americana. Fin dal suo primo mandato, il presidente ha dato voce a una interpretazione alternativa del 14esimo Emendamento, che è sorta e si è sviluppata all’interno dei circoli più radicali e conservatori – tra gli altri, quello che fa a capo a John Eastman e al Claremont Institute, che hanno già fornito a Trump le presunte basi legali per contestare il risultato delle presidenziali 2020. Questa scuola legale ritiene che il 14esimo Emendamento fu scritto per garantire i diritti degli ex schiavi e si riferisce solo ed esclusivamente ai figli degli schiavi nati sul suolo degli Stati Uniti, cui doveva essere garantita la cittadinanza. Le conseguenze di questa interpretazione sono evidenti. La schiavitù è stata abolita. Figli di ex schiavi da tutelare non ci sono più. Il 14esimo emendamento non è un diritto che possa essere allargato a tutti. Non basta nascere sul suolo statunitense per essere cittadini statunitensi.
Si tratta, appunto, di un’interpretazione che confligge con i principi seguiti per oltre un secolo dalla giurisprudenza americana, un’interpretazione rimasta confinata ai settori più periferici e in fondo ininfluenti del pensiero giuridico e politico americano, e che ora arriva davanti alla Corte Suprema. Si tratta di un risultato clamoroso. Il fatto che i giudici della Corte decidano di considerare la questione – avrebbero semplicemente potuto lasciarla alla considerazione dei tribunali inferiori – è infatti di per sé una legittimazione importante, un evento che mette in discussione uno dei pilastri più sacri della società americana. Se possibile, nella vicenda c’è però qualcosa di ancora più importante. Non appena Trump ha emesso il suo ordine esecutivo sulla cittadinanza, 22 Stati a guida democratica, diversi gruppi per i diritti civili, alcune donne incinte, si sono rivolte ai tribunali, chiedendone la sospensione. Tre giudici hanno quindi emesso ingiunzioni che bloccano l’ordine di Trump. Il 13 marzo, l’amministrazione ha chiesto alla Corte Suprema di cancellare l’ingiunzione dei giudici.
Quello che i nove giudici devono quindi ora decidere è solo in parte relativo allo ius soli – la questione verrà sicuramente approfondita in una successiva sentenza. Quello che i nove giudici devono decidere è la possibilità di un tribunale, anche semplicemente di una corte distrettuale, di bloccare le decisioni del presidente degli Stati Uniti. Sinora, appunto, è stato possibile, e le amministrazioni precedenti hanno sempre rispettato gli ordini dei tribunali. Quello che è stato rispettato e accettato sinora, non lo è più oggi. Trump chiede che un giudice non possa più bloccare, almeno temporaneamente, le sue decisioni. Se la Corte Suprema dovesse ora decidere a favore del governo, non sarebbe dunque solo il diritto di cittadinanza a essere minato. È la possibilità stessa dei tribunali di bloccare le decisioni di Trump che verrà limitata. È la possibilità del potere giudiziario di opporsi alla volontà illimitata del presidente che sarà colpita. A quel punto, il presidente degli Stati Uniti sarà legalmente legittimato a fare ciò che vuole, senza alcun ostacolo o impedimento. Con conseguenze difficilmente immaginabili, potenzialmente tragiche, per la tenuta della democrazia americana.
L'articolo Alla Corte Suprema Usa l’ordine di Trump di abolire lo ius soli: perché in ballo c’è soprattutto il potere assoluto (o no) del presidente proviene da Il Fatto Quotidiano.