Alaska, in ballo non c’è solo l’Ucraina: il vertice Putin-Trump serve a ristabilire una linea di comunicazione tra Mosca e Washington

  • Postato il 15 agosto 2025
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  • Di Il Fatto Quotidiano
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Non sarà solo un vertice per spartirsi l’Ucraina, come teme l’Unione europea e come vogliono far credere tutti i principali giornali. Il faccia a faccia in Alaska serve a ristabilire un rapporto e una linea di comunicazione tra Mosca e Washington, interrotte ormai da molti anni. Come nota sul sito dell’opposizione russa Meduza il giornalista Maxim Trudolyubov, “il Cremlino ha mantenuto contatti regolari con la Casa Bianca per tutta la prima metà del 2025”. Si va dai sei colloqui telefonici tra febbraio e luglio, gli incontri ad alto livello tenuti a febbraio a Riad, il tema dell’Artico messo in agenda (non a caso l’incontro si terrà in Alaska), l’incontro a luglio tra il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov e il Segretario di Stato americano Marco Rubio a margine del Vertice sull’Asia orientale. Ancora ad aprile, poi, “il capo del Fondo russo per gli investimenti diretti, Kirill Dmitriev, si è recato a Washington per discutere di possibili misure per porre fine alla guerra, nonché di investimenti in risorse di terre rare, energia e rotte commerciali settentrionali, anche attraverso l’Artico”. Di nuovo. La partita è più ampia della sola Ucraina, sebbene il destino di Kiev sarà decisivo.

Una visuale ampia, ed economicamente rilevante, è offerta dall’articolo apparso sull’ultimo numero di Le Monde Diplomatique (consultabile in italiano nel supplemento pubblicato dal manifesto in uscita nei prossimi giorni) a firma di due dissidenti russi. Il primo, il socialista Boris Kagarlitsky, attualmente sconta una pena detentiva di cinque anni con l’accusa infondata di “giustificazione del terrorismo“. Lo scorso luglio aveva inviato un messaggio al Forum Socialism 2025 svoltosi a Chicago per dire: “La buona notizia è che posso comunicare con voi, anche se sono in prigione (…) la cattiva notizia, ovviamente, è che ci sono molti prigionieri politici in tutto il mondo, inclusi non meno di 10.000 prigionieri politici nella sola Russia”. L’altro firmatario è il giornalista Aleksey Sakhnin, tra i protagonisti dei movimenti anti-Putin tra il 2011 e il 2013 e membro dei Socialists against the war, rifugiatosi in Francia.

Secondo Kagarlitsky e Sakhnin ci sono due “discorsi” anti-occidentali che si sono radicati in Russia dopo l’invasione dell’Ucraina. Il primo, a matrice geopolitica, vede una Russia che si oppone a un “Occidente egemonico” che utilizza l’Ucraina – e, aggiungiamo noi, il processo di allargamento a est della Nato – per sottomettere Mosca. Questa visione punta al Sud globale definito “la maggioranza mondiale” espressione che ritorna in questo discorso i cui principali esponenti sono Lavrov e intellettuali vicini al regime, come Serguei Karaganov, direttore del Consiglio di politica estera e di difesa. Si tratta di un discorso che punta molto sulla realtà dei Brics e si sostanzia, ad esempio, di affermazioni come quella contenuta nella rivista ufficiale del ministero degli Esteri che vedono opposti “gli interessi della maggioranza mondiale dell’85% della popolazione del globo” alla “politica neocoloniale di un gruppo ristretto di Stati occidentali guidati dagli Stati Uniti”. Un simile approccio è condiviso, scrivono i due dissidenti russi, anche dal club Valdai che al concetto di “maggioranza mondiale” dedica il principale dei suoi programmi di ricerca (valdaiclub.com)

L’altra narrazione, ideologica, presenta la Russia “come una sorta di Arca di Noé” incaricata di traghettare i “valori cristiani e tradizionali della civiltà europea, traditi dai dirigenti di Europa e America del Nord”. Questa dottrina vede come esponenti di punta il filosofo di estrema destra Alexander Dugin secondo cui ci sono “due occidenti”: “Uno ‘globalista’ delle elites liberali e l’Occidente tradizionale che soffre della loro potenza”. Una lotta all’interno dell’Occidente stesso, quindi, tra valori conservatori e tradizionalisti e valori liberali e globalisti. Quest’approccio messianico vede tra i suoi sostenitori altri esponenti dell’oligarchia e della cerchia putiniana come l’oligarca Konstantin Malofeev, proprietario della catena televisiva Tsargrad, finanziatore dei separatisti del Donbass già dal 2014 e conosciuto anche per essere citato nei vari legami della Lega di Matteo Salvini con Mosca (oltre che per aver sposato Maria Lvova- Belova inseguita da un mandato di cattura della Corte Penale internazionale per accuse di genocidio e deportazione degli orfani ucraini in Russia).

Fin qui la descrizione di posizioni politiche che, fino a ieri, scrivono Kagarlitsky e Sakhnin, hanno convissuto tranquillamente perché entrambe non minavano la strategia militare di Mosca. “Ma la prospettiva di un ‘deal’ tra Putin e Trump ha trasformato queste sfumature in linee di frattura”. La “linea Dugin”, in sostanza, propendendo per una intesa con Trump in nome di valori comuni, punta a disarticolare i legami con la Cina e con il nuovo rischio di “mondialismo” che l’alleanza globale dei paesi del Sud presenta, “un mondialismo non più Usa-centrico, ma sino-centrico”. Questa posizione e il possibile ‘appeasement’ con gli Stati Uniti – e magari in prospettiva anche con l’Europa, passata la furia ideologica di questi giorni – fa invece temere un contraccolpo alla rete di oligarchi e della burocrazia russa che ha intessuto legami strutturali con Pechino e con l’alleanza dei Brics. Si parla di soldi veri.

Secondo il Fondo monetario internazionale lo scambio commerciale tra Russia e Cina è passato dal 20% di prima del 2022 al 34% nel 2024 mentre secondo i dati Eurostat le importazioni europee di beni da Mosca si sono ridotte dell’86 per cento negli stessi tre anni. I principali settori che guardano alla Cina sono “il complesso militar-industriale, l’automobile, la logistica e le telecomunicazioni”. Tra le grandi imprese ci sono “Rosneft (petrolio), Gazprom o Rosatom (nucleare)” e la banca VTB. “Ora, il disgelo inatteso delle relazioni con gli Stati Uniti ha suscitato il timore della restituzione di una parte di questi attivi ai loro vecchi proprietari”. Questo perché nel corso della guerra è avvenuto anche un altro fenomeno, poco approfondito finora, ma la cui dimensione è resa dal dossier pubblicato dagli esperti di “Re Russia”, fondato dal politologo liberale Kirill Rogov e ripubblicato in occidente da Le Grand Continent.

Con lo scoppio della guerra, “la partenza delle aziende occidentali e la necessità di consolidare il complesso militare-industriale” sono stati elaborati “meccanismi quasi legali per il sequestro dei beni, in particolare un piano per l’annullamento delle transazioni di privatizzazione degli anni ’90, sulla base del riconoscimento dell’importanza strategica delle imprese”. Un processo di “de-privatizzazione” con rinazionalizzazione funzionale a premiare la cerchia più legata a Putin, leale e affidabile, in attesa di ricollocazione dei beni. Esattamente il timore dello schieramenti legato al Sud globale. In quel processo, giuridico e politico allo stesso tempo, le imprese legate all’industria chimica “stanno passando alla neonata Roskhim, le aziende agroindustriali finiranno probabilmente nell’orbita della mega-agroholding supervisionata dal vice primo ministro Patrushev Jr., e le aziende collegate in un modo o nell’altro all’industria della difesa stanno andando a Rostec”.

I beni sequestrati sono stati distribuiti “come ricompensa a imprenditori fedeli e gruppi imprenditoriali ristretti”. E così, “i beni delle compagnie energetiche Fortum e Uniper passarono sotto il controllo di Rosneft. La famiglia di Ramzan Kadyrov ha ricevuto le attività russe di Danone. L’ex capo di Baltika, Taimuraz Bolloev, amico di Vladimir Putin, è tornato a guidare l’azienda dopo che questa è stata sottratta a Carlsberg”. quello che il rapporto nota è che le autorità russe si sono mostrate comunque caute, nell’attesa di riprendere i rapporti commerciali con l’Ocdente o anche perché “i beni delle aziende russe, tra cui la stessa Rosneft, sono anch’essi “bloccati” nei paesi occidentali”. Nel processo di ri-nazionalizzazione è fortemente coinvolto il complesso militar-industriale: “Uno dei casi più eclatanti è il sequestro di tre impianti dell’impianto elettrometallurgico di Chelyabinsk (CHEMK) all’ex membro della lista Forbes Yuri Antipov. La Procura Generale ha ritenuto illegale la privatizzazione di CHEMK, effettuata negli anni ’90, perché non aveva ricevuto un’autorizzazione speciale dal governo federale (la causa è stata intentata nel dicembre 2022)”.

Nel 2022-2023, Novaya Gazeta Europa e Transparency International- Russia “hanno contato dieci casi di utilizzo di questo meccanismo quasi legale: un’impresa viene riconosciuta come “strategica” e pertanto l’autorizzazione alla sua privatizzazione, rilasciata negli anni ’90 dalle autorità regionali, viene dichiarata retroattivamente illegale”. L’esempio più recente dell’utilizzo di tale schema “è la conversione definitiva del 100% delle azioni del complesso Dalpolimetallurgical, uno dei maggiori produttori di concentrato di piombo, allo Stato”. In questo modo, la logica del tempo di guerra “si è trasformata in una nuova norma giuridica che consente l’annullamento retroattivo delle transazioni di privatizzazione, dopo 30 anni, senza alcun indennizzo”.

In Russia potrebbe prepararsi quindi un classico scontro tra settori imprenditoriali ed economici, molto difficile da decifrare, ma utile a capire le vere dinamiche in campo. La stampa italiana, invece, (vedi il Foglio del 12 agosto) si diletta a tracciare scenari apocalittici su una Russia che è pronta “ad attaccare l’Europa”. Contenti loro.

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