Addio Papa Francesco. Tutte le notizie in diretta | La prima immagine della salma del Pontefice
- Postato il 22 aprile 2025
- Di Panorama
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La morte di papa Francesco (1936-2025), avvenuta ieri, comporta l’inizio del periodo denominato Sede vacante, che segna non soltanto la cessazione della funzione del Sommo Pontefice, ma anche l’avvio di una fase giuridicamente definita e regolamentata in modo minuzioso dalla legislazione canonica vigente, in particolare dalla Costituzione apostolica Universi Dominici Gregis promulgata da san Giovanni Paolo II il 22 febbraio 1996, nonché da successive modifiche introdotte da Benedetto XVI e da Francesco. Il diritto canonico, all’art. 332 §2 del Codice del 1983, stabilisce che l’ufficio del Romano Pontefice si perde per rinuncia liberamente fatta e debitamente manifestata o per morte. Nel momento del decesso, il Collegio dei cardinali assume una funzione di particolare rilievo, pur privo del potere di esercitare alcuna giurisdizione che sia propria del romano Pontefice, in virtù del principio che nessun potere pontificio è delegabile sed vacante Sede apostolica.
La Sede apostolica, infatti, non si trasmette automaticamente a nessuno e rimane vacante fino alla legittima elezione del successore. Durante la vacanza della Sede, il governo ordinario della Chiesa universale è sospeso, salvo per quanto concerne gli affari ordinari e di stretta necessità, che sono affidati al Collegio dei cardinali, riunito in Congregazioni generali. È principio consolidato, risalente alla tradizione canonica e recepito dalla normativa vigente, che nulla si possa innovare durante la vacatio sedis («sede vacante nihil innovetur»), a tutela dell’integrità e della stabilità dell’ufficio petrino. Il cardinale Camerlengo (Kevin Joseph Farrell), figura centrale in questa fase, ha la responsabilità della verifica della morte del Pontefice secondo un protocollo formale e provvede a porre i sigilli agli appartamenti papali, alla gestione della Curia in affari correnti e alla preparazione del conclave. La normativa prevede che, entro un tempo non inferiore a 15 e non superiore a 20 giorni dalla morte del Pontefice, i cardinali elettori si riuniscano in conclave per procedere all’elezione del successore.
Va precisato che, in base al numero 36 della Universi Dominici Gregis, i cardinali deposti canonicamente o che hanno rinunciato, con il consenso del Romano Pontefice, alla dignità cardinalizia non hanno diritto di voto nel conclave. Il termine è stabilito per consentire l’arrivo a Roma di tutti i cardinali elettori aventi diritto, ovvero coloro che non abbiano compiuto l’ottantesimo anno d’età il giorno prima dell’inizio della vacanza della Sede apostolica, come stabilito dall’art. 33 della Universi Dominici Gregis. Il conclave, celebrato nella Cappella Sistina, è retto da norme precise che tutelano il segreto e l’isolamento degli elettori e prevede un sistema elettorale che richiede una maggioranza qualificata dei due terzi dei presenti per la validità dell’elezione. Durante questo periodo, ogni atto di governo della Chiesa universale che ecceda l’ordinaria amministrazione è sospeso. Gli atti del Romano Pontefice, in quanto personali e legati alla sua funzione di capo visibile della Chiesa, non proseguono in virtù di un automatismo, bensì cessano integralmente, salvo le disposizioni di natura permanente già promulgate. È esclusa ogni forma di «potestas vicaria» nel periodo della Sede vacante, a conferma dell’unicità e non delegabilità del «munus petrinum». L’elezione del nuovo Pontefice conclude la vacanza e inaugura una nuova fase, segnando la restaurazione della pienezza della potestà nella persona del successore di Pietro. L’accettazione dell’elezione da parte del nuovo eletto, ove canonicamente valida, determina l’assunzione immediata della suprema autorità nella Chiesa.

«Dio non lasciarci in balìa della tempesta». Francesco nella piazza San Pietro deserta e spazzata dalla pioggia all’imbrunire: è la fotografia immortale di un papato. Il 27 marzo 2020, mentre chiede al Signore di salvare l’umanità dal flagello della pandemia, Jorge Bergoglio entra nel cuore della cristianità, allunga la mano per accompagnare un popolo smarrito e conclude il suo viaggio dalla periferia al centro: quel giorno l’uomo «venuto dalla fine del mondo» raggiunge finalmente l’anima dei fedeli e la accarezza in sintonia con il Vangelo.
È il momento più alto del percorso di un Papa sfaccettato e controverso che ha guidato la Chiesa nella stagione dell’immagine e del grande gelo delle vocazioni. Lui ne avrebbe preferito un altro. Quando, salendo sulla scaletta dell’aereo che lo porta in Brasile (2013), reca con sé una vecchia borsa con i documenti, come a dimostrare che valletti e segretari non servono perché la fede è essenza e il capo è un servitore. Pellame nero su veste bianca, anche alla fine del mondo la forma è sostanza. Sarà un tratto del suo comunicare: scarpe contadine al posto delle pantofole rosse (che pure simboleggiano il sangue dei martiri), Casa Santa Marta invece dell’appartamento pontificio, il crocifisso di metallo e legno invece che d’oro. Fin dall’inizio il primo Papa gesuita della storia marca una differenza con i predecessori e dice per simboli: sono come te, ultimo degli uomini, e mi sono imposto il nome del santo più umile perché «sogno una Chiesa povera per i poveri». Nell’Europa del relativismo, che ormai non crede più in niente, spera (invano) che funzioni. La postura pauperista in chiave anticapitalista è un lascito della tradizione sudamericana. È il sentirsi prete-indio del 266º Papa della Chiesa cattolica, nato a Buenos Aires (barrio Flores) il 17 dicembre 1936 da emigranti piemontesi, papà Mario impiegato delle ferrovie e mamma Regina casalinga, impegnata a sfamare i cinque figli.
Jorge Mario comincia a lavorare a 14 anni: addetto alle pulizie, poi contabile in una fabbrica di calze. Al mattino fa i conti, al pomeriggio frequenta un istituto industriale. Si diploma perito chimico ed entra in un laboratorio che analizza prodotti alimentari. A 21 anni incontra la malattia e Cristo, insieme. Accade mentre è in ospedale tra la vita e la morte per una grave polmonite (gli viene asportata parte del polmone destro). «I parenti tentavano di consolarmi con frasi di circostanza. Un giorno viene a trovarmi suor Dolores, che mi aveva preparato alla Prima comunione. Mi dice: “Stai seguendo l’esempio di Gesù”. Allora capisco come bisogna affrontare cristianamente il dolore e trovo la pace».
Entra in seminario, nelle tante biografie uscite racconta pure di aver avuto una fidanzata. Poi il noviziato a Cordoba nella Compagnia di Gesù, la laurea in filosofia a 27 anni. Insegna da sacerdote e sale i gradini della gerarchia curiale. Nel 1992 Giovanni Paolo II lo nomina vescovo ausiliario di Buenos Aires, sei anni dopo diventa primate d’Argentina, poi cardinale sempre per merito di Wojtyla. Nella stagione più buia della storia patria aiuta gli oppositori del regime dei generali ma qualche schizzo di fango gli arriva sulla tonaca: la sinistra anticlericale che lui ingenuamente accarezza lo accusa di avere avuto una parte nel rapimento di due sacerdoti, fino a quando uno di loro non lo scagiona. Veleni contenuti nel libro di un ex militante dei guerriglieri rossi Montoneros in cerca di pubblicità. Bergoglio è concreto, vicino agli ultimi, politicamente sfuggente, ma non nutre alcuna simpatia per la teologia della liberazione che marchia la Chiesa sudamericana, anzi in più occasioni ne condanna le derive guevariste. La sua metafora preferita è quella del crampo. «A Buenos Aires fra padre allevatore e figlio ribelle c’erano pesanti divergenze ideologiche. Un vecchio sacerdote ascoltò le ragioni dei due, poi disse: “Il problema è che avete scordato il crampo. Il crampo alla schiena di tuo padre e di tuo nonno quando si alzavano alle quattro di mattina a mungere le vacche”».
La centralità della famiglia, la dignità del lavoro, la giustizia sociale sono i punti fermi di un alto prelato che nel 2013 diventa Papa nella situazione più straordinaria nella storia della Chiesa: la rinuncia di Joseph Ratzinger e la convivenza a pochi metri con un pontefice emerito anni luce più avanti come maestro di dottrina e teologia. Da vescovo si cucinava i pasti da solo. Da Papa ha fatto innamorare i romani quando si è presentato, senza scorta né preavviso, da un ottico a cambiare gli occhiali. Sarà il pontefice della vita quotidiana e dei colpi di teatro, dell’«andare incontro alla gente», vagamente più vicino a Giovanni XXIII che a Paolo VI. La sua storia è la sua cifra, e dice più del Messaggio che ci lascia, dominato dalla cacofonia. La sobrietà nei luoghi e nei rituali diventa ridondanza nelle parole: un destino nella società della narrazione mediatica. Così il Santo Padre è costretto a convivere con le contraddizioni. È contro l’estremismo socialista ma accarezza le istanze progressiste e finisce per piacere ai non credenti. Si oppone ad aborto ed eutanasia ma viene strumentalizzato dai fanatici dei desideri universali scambiati per diritti. È comunque custode granitico della famiglia tradizionale. Quando la presidente argentina Cristina Kirchner propone una legge che equipara matrimoni etero e unioni omo tuona: «È in gioco l’identità e la sopravvivenza della famiglia, padre, madre e figli. È in gioco la vita di tanti bambini che saranno discriminati in anticipo, privandoli della maturazione umana che Dio ha voluto che si desse con un padre e una madre». Poiché per un gesuita l’ecumenismo è tutto, pronuncia sui gay la frase «Chi sono io per giudicare» – in realtà indirizzata alla lobby vaticana -, diventata passe-partout transgender per giustificare ogni fluidità.
Al gregge dei fedeli parla poco della dottrina, molto della salvezza del pianeta. È contro i populismi ma da populista latinoamericano. Un giorno lascia trapelare la possibilità di dimissioni, quello successivo annuncia: «Mai avuto in mente, per il momento». Nel motu proprio Come una madre amorevole combatte la battaglia contro la pedofilia dei sacerdoti, scolpendo regole che la Curia qualche volta applica, molte altre disattende. Nell’enciclica Laudato Si’ acqua, terra, natura sembrano trasformarsi in divinità. Qualche cardinale conservatore l’accusa di voler derubricare la Chiesa bimillenaria a una setta new age nell’Occidente postcristiano dominato dallo scientismo ecologista. Le fibrillazioni percorrono il Vaticano. Quando davanti ai vescovi consiglia di chiudere le porte ai seminaristi gay («C’è già troppa frociaggine in Vaticano») la cupola di San Pietro – metaforicamente – trema.
Francesco è il Papa della comunicazione a tappeto. Sul pianeta social è il primo ad aprire un account Instagram che raggiunge un milione di follower in 12 ore. Il primo a firmare un articolo nella pagina delle opinioni del New York Times (sulla solidarietà globale). «Bisogna andare incontro alla gente». Così è anche il primo a rilasciare più interviste di una rockstar. Quando decide di farlo in Italia, affida i suoi pensieri – fra gli altri – a Eugenio Scalfari, fondatore del laicissimo quotidiano La Repubblica, e allo scaltro fratacchione catodico Fabio Fazio. Non manca neppure il videomessaggio al Festival di Sanremo. Francesco è una manna per progressisti, agnostici e atei che lo blandiscono nel tentativo di cooptarlo. Arriva ad arruolare nell’esercito degli angeli anche Luca Casarini, pregiudicato ex leonka, titolare dell’«Osteria allo sbirro morto», che diventa commodoro vaticano nello sbarcare migranti e si esibisce in imbarazzanti passerelle alle conferenze episcopali. Contrario a ogni guerra come da dettato evangelico, ferma quella di Barack Obama in Siria ma nulla può per evitare quella in Ucraina. In politica estera Bergoglio segna una discontinuità forte: è il pontefice meno americano degli ultimi due secoli. Il rapporto con il clero statunitense è conflittuale, quello con la Casa Bianca solo cortese. Apre alla Cina e sigla un accordo con Xi Jinping che frustra i vescovi locali, per anni vittime di persecuzioni: la loro nomina deve avere l’assenso del regime.
Lentamente la salute lo abbandona e lottare contro «la società autodistruttiva» che ha come unica religione lo scongelamento del permafrost diventa difficile. Afflitto da dolori articolari alle gambe, ricorre alla sedia a rotelle. Viene operato al colon. È ricoverato per crisi respiratorie sempre più frequenti; a 88 anni quello spicchio di polmone in meno diventa la sua croce. Nelle ultime settimane i bollettini medici si fanno preoccupanti, le apparizioni pubbliche rare e intense. Mostra sul volto gonfio gli effetti del cortisone ma non rinuncia ad «andare incontro alla gente». Nel giorno di Pasqua l’ultima udienza privata, concessa al cattolicissimo vicepresidente americano JD Vance, e l’ultima apparizione per la benedizione Urbi et Orbi. Poi il saluto sulla Papamobile ai fedeli con un significato particolare, quello dell’addio. Francesco non ha mai amato parlare della sua salute. A chi gli chiede come sta, fino alla fine risponde: «Sono ancora vivo. Non dimenticarti di pregare per me». Ora è nella Grazia per l’Eternità.