Addio Brian Wilson, artista libero e instancabile con una vita difficile che ci ha regalato il più importante concept album della storia (serve dire il nome?)
- Postato il 12 giugno 2025
- Musica
- Di Il Fatto Quotidiano
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Che Brian Wilson ci lasci ad 82 anni nell’epoca del dominio dell’Auto-Tune è come veder demolire improvvisamente una Spider Alfa Romeo del ’66 e poi girare dandosi arie su una Smart. Genio introverso e instabile, cantautore rivoluzionario e cocciuto, artista libero e instancabile, Wilson è stato tutto fuorché un’icona spettacolare della musica. Per questo nella storia degli show, dei live, poi dei video, non c’è mai un’esplosione di visibilità nella sua presenza in scena. Del resto i Beach boys salivano sul palco sempre in una trentina e Mike Love, con quella sua vocina e movenza da crooner infeltrito, accentrava sguardi e camiciole hawaiane, mentre Carl, il fratello di Brian, negli anni divenne un po’ il Paul McCartney dell’era barbuta ’68-’70. Insomma, che Brian ci fosse o non ci fosse dal vivo non se ne accorgeva nessuno. Invece, fosse mancato a livello compositivo i Beach boys non sarebbero esistiti. Capiamoci. Qui si parla di una storia musicale davvero controcorrente.
Una band giovanissima che sfonda pesantemente con il surf rock, che anticipa i Beatles nella loro barbara e ammaliante calata in terra americana, che potrebbe permettersi di dire ad Elvis di farsi cortesemente di lato, ma che in fondo si accoda al suo creatore/distruttore e all’improvviso in pieni anni sessanta con mezzo mondo ai propri piedi cambia rotta incidendo Pet Sounds (1966), un delirio creativo tutto frutto della millimetrica testardaggine di Brian Wilson e, in minima parte, di un paroliere come Tony Asher. Peraltro Wilson andava in giro sostenendo di “sentire delle voci nella testa”. E meno male. Perché quella che poi gli verrà diagnosticata a livello psichiatrico in mille modi tra la schizofrenia e il disturbo bipolare, a livello biologico concretamente tra l’acufene e una sordità conclamata all’orecchio destro, sarà per Wilson una sorta di frusta, di sprono ad una attività indefessa, quasi autistica, che lo porterà a sperimentare, a imporre, a tradire, a trasformare il modo di comporre la musica leggera.
Alla base c’è sempre qualcosa di sorprendente. Brian da bimbo è già genio dell’apprendimento musicale: suona la fisarmonica senza spartito, intona in un amen le melodie appena ascoltate, autodidatta a dodici anni pure per il pianoforte. E visto che non manca di intraprendenza e versatilità scrive spartiti e testi, coinvolge fratelli e amici che già imbracciano strumenti, si getta tra le onde californiane del surf in USA. Le armonizzazioni vocali, i coretti, i controcanti in falsetto però arrivano subito. Non dobbiamo arrivare all’inatteso, probabilmente più importante concept album della storia, come Pet Sounds. La cifra di Brian Wilson è chiara fin dalle prime suonatine in parrocchia. Poi è altrettanto chiaro che la fragilità psichica del ragazzo è conclamata, un misto tra ipernarcisismo e ultracompetitività che lo spinge ad un uso smodato di droghe, di erba, LSD perfino di eroina e cocaina, ad un viaggio siderale dove perde i sensi e li recupera andando a cercare, sempre composto, con le camiciole rigate penzolanti sui pantaloni, nuovi territori sonori.
L’ambizione di Wilson fu sempre quella di riempire di strumentazioni e armonizzazioni vocali, di intuizioni e varianti, di accelerazioni e rallentamenti di ritmo, di versi di cani e “rumori”, le partiture ordinarie di testi di tutti i giorni. Una vita difficile quella di Brian. Perché le voci che ronzano in testa probabilmente non l’hanno lasciato mai. Strattonato dai revival e dalle interviste, chiamato a ripetere un repertorio articolato e forse mai realmente omogeneo, per non ritrovarsi più in accappatoio in pubblico o rinchiuso in camera da letto per mesi, si è fidato di una specie di mezzo psicanalista, poi suo consulente e socio, un po’ come le siringhe di sedativi che “il colonnello” faceva sparare in vena a Elvis, per distruggere definitivamente il suo personaggio pubblico e il barlume di instabile autostima rimasta. Frastornato dalla demenza, ferito dalle pugnalate di qualche ex collega, ridotto pure ad album brutti e sgraziati per tirare avanti, Wilson ha dissipato rapidamente l’alone del mito nella catatonia cronica del malato inguaribile. Guardate Love & Mercy, il film biografico che Bill Polhad gli ha dedicato nel 2015. Pare sia fedelissimo all’andamento reali dei fatti. E come scrivevamo all’epoca, come fosse una preghiera, a lui il peso del tormento della creazione e a noi la sua musica. Con il massimo rispetto.
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