A zonzo per i margini del pianeta con Paolo Pecere, guidati dalla psicogeografia

  • Postato il 7 settembre 2024
  • Di Il Foglio
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A zonzo per i margini del pianeta con Paolo Pecere, guidati dalla psicogeografia

“Non sai quant’è interessante la scena musicale del Burkina Faso”. Siamo in un irish pub a Monte Sacro quando Paolo Pecere se ne esce così. Stiamo parlando di Africa e poco prima ci ha raccontato di come sia riuscito fortunosamente a passare la frontiera fra Togo e Benin. Era trattenuto da ore alla dogana e c’è voluto qualche commento tecnico su una partita in tv per sbloccare la situazione. Più una cospicua mazzetta, s’intende. Fosse chiunque altro penserei a un millantatore, alla più classica sindrome da Manuel Fantoni, ma in questo caso si va sul sicuro. Paolo Pecere sta sempre in giro: per la nostra invidia è riuscito a trovare la scusa perfetta per viaggiare nei luoghi più remoti e impervi della terra, da Ulan Bator al Borneo, dal Rio delle Amazzoni all’Aniene. Docente di Filosofia a Roma Tre, autore di un paio di romanzi, di saggi e podcast sulla trance fra sciamani, sufi e vudù, ci eravamo visti per parlare del suo ultimo libro, Il senso della natura (Sellerio), cinquecento e rotte pagine di itinerari per ricomporre un equilibrio fra uomo e natura che sembra essersi spezzato, un precipitato di tante discipline e di un unico, umanissimo sguardo.

  

Quando ci risentiamo qualche settimana dopo mi risponde da un ostello in Chiapas. Gli chiedo come si scrive un libro così: “Camminando tantissimo, 10-15 chilometri al giorno. Il metodo è quello della psicogeografia. Ho iniziato nel 2005. Si fa anche in città, da punto a punto si attraversano i confini dell’esperienza turistica. E’ un mezzo di conoscenza”. Però andare a zonzo per i margini del pianeta qualche rischio lo comporterà? “In vent’anni ho totalizzato solo una rapina e un sequestro”. Poteva andare peggio. Ma prendi appunti mentre sei in giro? “No, scatto foto piuttosto. Mi servono come promemoria, aiutano a ricostruire i dettagli. Nel libro ci sono viaggi dei primi Duemila e all’epoca nemmeno ci pensavo a scrivere”.

  

E quando hai cominciato? “Dopo anni di alterazione sensoriale, di uscita dal mio ambiente naturale e quindi anche dal mio linguaggio. Andare in alta montagna, camminare nella foresta, immergermi sott’acqua, incontrare animali non umani, tutte esperienze che ho fatto in silenzio e che dopo qualche ora mi permettono di entrare in uno stato irraggiungibile quando faccio la mia vita ordinaria”.

 

In questo tentativo di ricongiungere uomo e natura che anima il libro, e i tuoi viaggi, non c’è un po’ il rischio di demonizzare il presente per rimpiangere una edenica èra preindustriale? “Certo, la nostalgia della natura è antica quanto la civiltà. Io stesso mi sono allontanato dalla mia vita di comodità e benessere con questo spirito. Ma andare nei luoghi selvaggi ci fa scoprire che lì la storia non s’è mai fermata. Non ha senso favoleggiare di tornare a fare i cacciatori raccoglitori nella foresta perché per primi non lo fanno più nemmeno gli indigeni. Però nelle nostre società, quelle da cui partiamo, c’è qualcosa che manca e da questi viaggi possiamo apprenderlo, dalla ricerca medica all’agricoltura”.

  

Questa connessione passa anche dal rapporto con gli altri animali, come nei tuoi incontri con balene, oranghi, gorilla. “La definizione dell’umano, fin dall’antichità, è sempre stata rispetto alle altre specie. Quando ci confrontiamo con un animale che non parla il nostro linguaggio ci rendiamo conto della nostra animalità, della comunanza di bisogni, facciamo a meno del nostro io autobiografico, del nostro curriculum”.

   
Immagino che ti considererai un viaggiatore più che un turista, ma possibile che i turisti siano sempre gli altri? “Il punto è come si viaggia: bisogna uscire dalle proprie abitudini, altrimenti si consuma un’esperienza preconfezionata in cui si mangia e si parla come a casa. E lo si può fare anche da turisti indipendenti, basta svoltare un angolo e non seguire i percorsi battuti. Il viaggio che lascia qualcosa di profondo, poi, è preceduto e seguito da letture e da un interesse per quei luoghi che perdura nel tempo, stabilendo una connessione personale, ecologica e politica”.

 

Eppure è un periodo in cui si sente dire peste e corna del turismo di massa e di come sta trasformando il pianeta. “L’industria globale del turismo ha un impatto negativo evidente, ma corrisponde al bisogno umano di esplorare il mondo e a una democratizzazione del viaggio, banalmente anche alla possibilità di avere le ferie. Poi se guardiamo a posti come la Nigeria o il Ruanda la presenza o meno di turisti ha una ricaduta positiva anche sulla conservazione dell’ambiente e delle specie”. Quindi, per riprendere il vecchio Paul Bowles, il turista è quello che pensa al ritorno fin dal momento in cui arriva mentre il viaggiatore può anche non tornare mai? “Contesto la definizione elitaria di chi si accredita il titolo di viaggiatore avendo la possibilità di immaginare di non dover tornare a lavorare. Chi davvero risponde a questo identikit oggi è il migrante, per il quale non è previsto un biglietto di ritorno e a cui non è consentito visitare altri paesi col suo passaporto”.
 

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Autore
Il Foglio

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