A rischio amputazione per un’infezione “mangia-carne”: al Gemelli gli salvano la gamba
- Postato il 10 aprile 2025
- Salute
- Di Il Fatto Quotidiano
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“Un intervento eccezionale, una disciplina nuova che ha pochi centri in Italia”. Così un paziente arrivato in ospedale con un’infezione “mangia-carne” alla gamba destra è stato salvato al Policlinico Gemelli. Il giovane, arrivato dalla Nigeria sulle coste della Calabria nel 2017, era diventato operatore ecologico in Lazio. È stato proprio durante questo lavoro che ha contratto l’infezione, finendo con la gamba in una buca coperta da una lastra di compensato e riportando la brutta ferita.
A quel punto si era dovuto sottoporre a vari interventi parziali e a tanti antibiotici, poi l’arrivo nell’ospedale romano. La diagnosi fornita dai medici è stata di osteomielite post-traumatica, una grave infezione ossea, che coinvolgeva gran parte della tibia e della caviglia. Tuttavia, all’arrivo in ospedale, l’infezione era già diffusa, propagata da quelli che i tamponi colturali profondi hanno individuato essere i batteri “mangia-carne” (flesh-eating), dello Stafilococco Aureus e dell’Escherichia Coli, batteri che gli stavano “corrodendo” cute e muscoli fino all’osso.
La soluzione estrema sarebbe stata l’amputazione ma una risposta alternativa esisteva: l’asportazione della parte inferiore di gamba e parte della caviglia con successiva ricostruzione. Un percorso durato un anno e proposto dall’ortopedico Carlo Perisano, ricercatore in Ortopedia e Traumatologia all’Università Cattolica del Sacro Cuore, e dalla dottoressa Elisabetta Pataia, docente di Chirurgia ortoplastica all’Università Cattolica del Sacro Cuore e chirurgo plastico presso la UOC di Ortopedia e Traumatologia della Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli.
“Abbiamo resecato quasi tutta la tibia del paziente sotto il ginocchio e l’astragalo, per rimuovere tutti i focolai di infezione – ha spiegato il dottor Perisano -, poi abbiamo messo un sostituto temporaneo dell’osso, cioè uno spaziatore cementato e antibiotato, al fine di far guarire i tessuti e ridurre il rischio di re-infezione”. La ricostruzione ossea è partita dopo quattro mesi di antibiotici, per poter allungare l’arte con un fissatore esterno e consistita “nell’osteotomia della parte di tibia rimanente e nella distrazione dei due monconi ossei (il gap osseo era di circa 20 cm), per permettere all’osso neoformato di crescere tra le porzioni di osso residue”, si legge su Fanpage. Pur essendo stati recuperati 10 centimetri di osso, quegli stessi centimetri non erano sufficienti a ricostruire la parte mancante di tibia.
“Abbiamo dunque prelevato tre lembi: uno muscolo-cutaneo dalla coscia e due ossei da entrambi i peroni del paziente. Ci siamo trovati questa sorta di patchwork osseo-muscolo-cutaneo che è stato collegato con tecnica micro-chirurgica”, ha aggiunto la dottoressa Pataia specificando che si tratta “di un sistema detto lembo-chimera che consiste nel collegare un lembo muscolo-cutaneo al vaso arterioso della gamba ricevente, per poi collegare tra di loro i restanti lembi. In pratica il primo lembo alimenta l’altro, attraverso una serie di connessioni vascolari realizzate al microscopio, che partendo da un solo vaso ha consentito di alimentare tre lembi diversi”.
La parte mancante della tibia e l’astragalo sono stati così ricostruiti col perone della gamba sana e di quella malata, e con viti ortopediche è stato garantito il fissaggio. Mettendo a protezione un fissatore esterno circolare per fare guarire i tessuti e consolidare le parti ossee. Un intervento di fino, che ha permesso di ridare al paziente proveniente dalla Nigeria nuove speranze grazie all’intervento e alle ricerche degli esperti del policlinico Gemelli di Roma. Oggi il paziente vive in una casa famiglia, assistito dai servizi sociali.
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