“50mila i tumori non individuati”, report Gimbe: bassa adesione a screening e gap sanitari tra Regioni
- Postato il 20 maggio 2025
- Salute
- Di Il Fatto Quotidiano
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È necessario “sensibilizzare i cittadini sull’importanza degli screening organizzati e sollecitare Regioni e aziende sanitarie locali a concentrare sforzi organizzativi e comunicazione pubblica su questo pilastro fondamentale”. A parlare così è Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione Gimbe, che recentemente ha commentato i dati sulla prevenzione oncologica in Italia già raccolti dal Report 2023 dell’Ons, l’Osservatorio Nazionale Screening.
Un rilevamento in particolare ha messo in luce una tendenza preoccupante nel nostro il Paese: il fatto che nel 2023 siano stati ben 50mila i tumori non individuati, di cui “10.900 i carcinomi della mammella – e di questi 2.400 invasivi di piccole dimensioni -; quasi 10.300 le lesioni pre-cancerose del collo dell’utero; e oltre 5.200 i tumori del colon-retto con quasi 24.700 adenomi avanzati”. Oltre 50mila tumori che si sarebbero potuti individuare con diagnosi precoci, e curare con terapie il più efficaci e meno invasive possibili. Perché questo enorme “buco” nella prevenzione? Anzitutto, per la “mancata adesione – ha affermato Cartabellotta – ai programmi di screening organizzati” da parte di milioni di cittadini che o non hanno ricevuto o – più grave – hanno ignorato l’invito a sottoporsi a controlli gratuiti. Il trend delle adesioni varia profondamente, aggiunge la Fondazione Gimbe, a seconda della Regione, mostrando come permangano urgenti gap differenziali tra i modi con cui ciascuna azienda regionale affronta il problema.
Il fattore “individuale” – A minare il funzionamento della diagnosi precoce dei tumori ci sono le adesioni degli italiani, “ancora troppo basse”. E ciò nonostante i Livelli essenziali di assistenza (Lea) prevedano che, per alcune persone e per certe fasce d’età, gli screening oncologici siano erogati gratuitamente. Nella fattispecie, ricorda Cartabellotta, “La mammografia per le donne tra i 50 ed i 69 anni, lo screening del tumore della cervice uterina per le donne tra i 25 ed i 64 anni e quello colon-rettale per donne e uomini tra i 50 ed i 69 anni”. In alcune Regioni poi, con dovute specifiche legate a fondi extra-Lea, le fasce d’età sono anche più larghe, sicché “lo screening mammografico viene esteso anche alle donne tra i 45 e i 49 anni e tra i 70 e 74 anni e quello colon-rettale alla fascia d’età 70-74”. Nonostante le possibilità previste dal Servizio sanitario nazionale, nel 2023 dei quasi 16 milioni di cittadini invitati ad eseguire il test di screening, “solo 6.915 milioni hanno aderito”, con adesioni estremamente disomogenee per programma e per Regione.
Naturalmente vanno considerate, puntualizza Cartabellotta, tutte le “imprecisioni” e i limiti che le indagini campionarie presentano, né si può dimenticare che molte persone “dichiarano di sottoporsi a controlli periodici per ‘iniziativa spontanea’, come rileva l’indagine campionaria del sistema di sorveglianza PASSI dell’Istituto Superiore di Sanità”. Il problema però, continua il presidente della Fondazione, è che per gli esami fatti in modo autonomo “non esistono dati oggettivi (come il tasso di identificazione dei tumori o percentuale di positivi che si sottopongono al test di secondo livello), né controlli standardizzati sulla qualità dei test. E non vi è alcuna certezza che, in caso di esito positivo, venga attivato un adeguato percorso diagnostico e terapeutico”. Gli screening oncologici avviati per ‘iniziativa spontanea’ dunque sono difficilmente monitorabili né le indagini sanno sempre certificarne la copertura.
La mancata adesione agli screening dunque delinea un quadro che fa riflettere. Per quanto riguarda i tumori della mammella, “Tenendo conto di un tasso di identificazione dello 0,5% per tutti i carcinomi e dello 0,14% per quelli invasivi di dimensioni 10 mm e di una popolazione stimata di 2.118.870 donne che non si è sottoposta allo screening, si stima che nel 2023 non siano stati identificati 10.884 tumori, di cui 2.381 carcinomi invasivi di dimensioni 10 mm”. Per i tumori della cervice uterina, “Sulla base di un tasso di identificazione di lesioni pre-cancerose (istologia CIN2+) pari allo 0,76% per l’Hpv test e allo 0,64% per il Pap-test, e considerando che potenzialmente 1.156.447 donne non hanno ricevuto o aderito all’invito per l’Hpv test e 604.304 a quello per il Pap-test, si stima che nel 2023 complessivamente siano sfuggite alla diagnosi 10.273 lesioni con istologia CIN2+“. Infine, “Con un tasso di identificazione dello 0,11% per il carcinoma del colon-retto e dello 0,52% per gli adenomi avanzati, e con potenzialmente 5.574.231 persone che non hanno aderito allo screening, si stima che nel 2023 non siano stati identificati 5.223 carcinomi e 24.692 adenomi avanzati”. Al quadro complessivo Cartabellotta segnala un dato ulteriore, profondamente paradossale: “Da un lato i cittadini sono in lista di attesa per esami diagnostici non sempre appropriati, dall’altro sono in milioni a non aderire ai programmi di screening organizzati”, facendo emergere un ulteriore piaga nel Sistema sanitario nazionale, ovvero i tempi delle liste d’attesa.
Il fattore “regionale” – I dati parlano chiaro: non solo ad oggi è lontano il target fissato nel 2022 dal Consiglio Europeo sulla copertura degli screening oncologici ad almeno il 90% della popolazione target entro il 2025. Ma tutte (o quasi) le Regioni del Sud Italia si collocano sotto la media nazionale: “Tutte le Regioni del Mezzogiorno ad eccezione del Molise si collocano sotto la soglia del 100%, a dimostrazione che in queste Regioni la bassa adesione agli screening è spesso legata a carenze organizzative nella gestione degli inviti”. Del 94.3% della popolazione target invitata a procedure preventive nel 2023, il 118.6% ha risposto dall’Emilia-Romagna contro il 55.9% della Sardegna. “Sul fronte degli inviti – ha commentato Cartabellotta – molte Regioni, in particolare del Sud, devono migliorare le proprie capacità organizzative” e anche qui i dati sono un sintomo analitico preciso: se la media nazionale di adesione allo screening è del 32.5%, l’andamento della stessa passa da percentuali come il 62% in Veneto al 4.4% in Calabria. E ancora, per lo screening mammografico, “Si passa dall’82,5% della Provincia autonoma di Trento all’8,1% della Calabria”, continua il Presidente della Fondazione.
In un’ipotetica “classifica” regionale, le aree nazionali più virtuose per adesione agli screening di mammella, cervice uterina e colon-retto sono il Trentino, l’Emilia Romagna e il Veneto. La Provincia Autonoma di Trento, soprattutto, è prima per adesione ai programmi di controllo di mammella e cervice (rispettivamente 82,5% e 78% degli invitati a eseguire il test), e seconda (con il 53%) per il colon-retto, dietro al Veneto (62%). L’Emilia-Romagna vanta rispettivamente due secondi e un quarto posto, mentre il Veneto un quinto, un terzo e, come detto, un primo. Fanalini di coda della classifica sono invece la Campania, la Sicilia, la Sardegna e – peggio di tutte – la Calabria. Eccezioni notevoli sono invece rappresentate dalla Basilicata e dalla Puglia, poste in corpo di lista (rispettivamente decima e undicesima). Per quanto riguarda il Lazio invece, il posto occupato è il sedicesimo.
Soluzioni – La prevenzione si realizza attraverso la promozione della salute: per questo sono necessari sforzi di miglioramento organizzativo e strumenti di sensibilizzazione della materia. Come infatti auspicato da Cartabellotta, “Servono maggiori informazioni, strategie di comunicazione efficaci e coinvolgimento attivo dei cittadini. Perché aderire agli screening organizzati significa diagnosi precoce, trattamento tempestivo delle lesioni pre-cancerose, un numero maggiore di guarigioni definitive, meno sofferenze per i pazienti, costi minori per il Ssn e, soprattutto, meno decessi per tumore”.
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