100 anni di Art Déco. La nostra indagine dentro al gusto di un’epoca 

  • Postato il 19 giugno 2025
  • Arte Moderna
  • Di Artribune
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Con il 1925 si fa coincidere, per convenzione, l’avvento dell’Art Déco, intesa come insieme di segni capace di orientare il gusto di una società in cerca di evasione, dopo la tragedia della Prima guerra mondiale. Un fenomeno tanto dirompente, che ben rappresenta l’immaginario dei ruggenti Anni Venti, quanto effimero. E per questo destinato a esaurirsi – almeno nella sua forma originale – nell’arco di una manciata d’anni, come quelle mode cavalcate dal mercato che d’un tratto vengono a noia. Ma la nascita e il declino dell’Art Déco, persino la natura stessa di un movimento creativo e produttivo che accenderà gli entusiasmi d’Europa prima di migrare alla conquista del mondo, non sono semplici da inquadrare. Perché l’Art Déco, di cui nel 2025 cade il centenario in riferimento all’Exposition des Arts Décoratifs et Industriels Modernes di Parigi, che nel 1925 si proponeva di codificare lo stile contemporaneo in risposta al desiderio di modernità di un mondo in rapido cambiamento, è figlia, per l’appunto, di un periodo storico e politico di grande instabilità. Di una società – quella alto-borghese, principalmente – che maschera l’incertezza per il futuro che verrà con la pretesa di un ottimismo da mostrare a tutti i costi, per affrancarsi dalla banalità del quotidiano, dimenticare la guerra, ricercare strenuamente il piacere di vivere. Quel che sarà negli Anni Trenta, con le derive autoritarie e ideologiche che riporteranno il mondo nel baratro, è storia nota.
Ma negli Anni Venti il glamour incarnato dal gusto déco ha piena cittadinanza in Europa e trova l’habitat ideale per proliferare nella vita delle grandi città, tra salotti borghesi, cinema, sale da ballo, alberghi di lusso. Conquistando al contempo anche il pubblico piccolo-borghese, desideroso di sperimentare ciò che vede su riviste e pubblicità.

Che cos’è l’Art Déco

E dunque, cos’è l’Art Déco? “Ne farei innanzitutto una questione di linguaggio” sottolinea Valerio Terraroli, che all’Università di Verona è docente di Storia della critica d’arte e Storia delle arti decorative e curatore della mostra Art Déco. Il trionfo della modernità che a Palazzo Reale di Milano rende omaggio al centenario del movimento “Tendiamo a usare i termini ‘stile’ e ‘gusto’ in modo intercambiabile. Lo stile, però, viene teorizzato nel momento in cui si configura: pensiamo al Modernismo o all’Art Nouveau. Nel caso dell’Art Déco non esiste una teorizzazione, né manifesti come avviene per le AvanguardieSi tratta piuttosto di un gusto, determinato dalla necessità di cambiare. Da un desiderio, un’aspettativa, una sensibilità che viene affascinata da un sistema di segni schematici, preziosi, goduriosi perché incarnano la gioia di vivere come se non ci fosse un domani: oltre alla guerra, anche la Spagnola, la prima epidemia che travolge l’Europa in età moderna, ha causato milioni di morti”. C’è, insomma, voglia di disimpegno: “La grande borghesia europea non vuole prendere posizione. Il bolscevismo seguito alla rivoluzione del 1917 fa paura al capitalismo occidentale: ci si guarda bene dall’abbracciare fenomeni che inneggiano all’avanguardia. Ma questo modello di vita non può durare a lungo, come dimostra l’avvento delle dittature che riporteranno l’ordine. E quindi anche la parabola dell’Art Déco è breve: nel 1929 l’impeto è già finito. Questa è anche la forza di un fenomeno che fa tendenza. È esplosivo, travolgente come uno spettacolo di fuochi d’artificio: meraviglioso finché dura, dopo dieci minuti è tutto finito”. 

Le costanti dell’Art Déco

Il mondo produttivo e quello creativo recepiscono questo impulso, e sul piano formale l’Art Déco poggia su alcune costanti: l’identificazione della bellezza con la decorazione – però superando certi stilemi leziosi dell’Art Nouveau, che rappresenta un passato da dimenticare – il valore della sapienza esecutiva (che si tratti di esaltare l’artigianalità o la serialità industriale), la preziosità dei materiali. “Invochiamo il dono di un po’ di bellezza per addolcire, per arricchire, per nobilitare l’aspra vita quotidiana con il sorriso del divino, del solo indispensabile superfluo”, scriverà Margherita Sarfatti nel testo che introduce la partecipazione italiana all’Expo di Parigi. Ma l’Art Déco è soprattutto la sintesi di diverse suggestioni, che riescono a convivere perché adattate a un codice (implicito) comune, seppur tra mille contraddizioni interne, come sarebbe stato chiaro a chiunque tra gli oltre 15 milioni di visitatori che decretarono il successo dell’Esposizione Universale del 1925.

L’Art Déco come momento di sintesi

Dopo l’Expo dedicata alle arti decorative di Torino 1902, già nel 1911 la Société des Artistes Décorateurs aveva proposto di organizzare una nuova esposizione per sostenere il mercato francese con oggetti più adeguati a rappresentare un cambiamento di gusto diffuso. Arrivati alla vigilia del 1915, prima la guerra e poi una serie di rinvii portarono all’effettiva inaugurazione solo nell’aprile 1925. A Parigi confluirono così una serie di istanze ed esigenze decantate nel decennio precedente, “una sorta di antologia shakerata di una serie di memorie”, per dirla con le parole del professor Terraroli: “Troviamo da un lato l’evoluzione delle formule dell’Art Nouveau però schematizzate, quindi le linee geometriche rispetto all’asimmetria naturalistica, e una appropriazione ironica del classico e degli stili del passato (come il Manierismo) anziché una ripresa nostalgica di quegli elementi. L’altra influenza che viene recepita è la contaminazione di civiltà altre, quindi l’Oriente – Cina, ma soprattutto Giappone per l’idea del vuoto, dello schema, l’uso dell’oro e della lacca nera – l’Africa in senso lato. E anche la scoperta della tomba di Tutankhamon nel 1922 solletica l’immaginario collettivo, tra preziosità, mistero, morte abbinata a passione. Non ultimo, la trasformazione della società dopo la guerra vede anche un cambiamento del mondo femminile: le donne degli Anni Venti non hanno più niente a che fare con le svenevoli fanciulle degli Anni Dieci”. In questo contesto già molto variegato entrano i linguaggi delle Avanguardie, che avevano insegnato al pubblico e ai collezionisti a guardare le cose in modo diverso: “Non si scelgono i linguaggi più radicali come il dadaismo, ma l’impostazione cubista sì: figure con tagli netti, volumi quadrati, cilindri, modalità di rappresentazione bidimensionale. E pure il Futurismo, per il suo trattamento dello spazio. Non a caso i futuristi parteciparono a Parigi, come pure i costruttivisti russi: l’Unione Sovietica si presenta all’Expo per farsi accettare dall’Europa, proprio come l’Italia mussoliniana che per l’occasione fa realizzare un padiglione neorinascimentale, in linea con il gusto di regime, ad Armando Brasini. Ennesima conferma di come a Parigi 1925 fosse confluito proprio di tutto”.

L’esposizione delle arti decorative e industriali moderne a Parigi 1925

L’Esposizione si svolse dal 28 aprile al 30 novembre tra l’Esplanade des Invalides e Place de la Concorde, coinvolgendo anche il Grand Palais e il Pont Alexandre III. Vi parteciparono 21 Paesi – non la Germania, sconfitta in guerra, e neppure gli Stati Uniti – tra cui la Cina, il Giappone, la Turchia, e diverse industrie e aziende private francesi di rilievo, con i grandi magazzini in prima linea per presidiare il nuovo potenziale mercato. Proprio i grandi magazzini realizzarono padiglioni più aderenti all’estetica Art Déco (tra rigore geometrico e decorativismo), dal Padiglione Primavera di Printemps al Padiglione Pomone di Au Bon Marché. E interpretò perfettamente lo spirito della rassegna la cosiddetta Casa del Collezionista di Pierre Patout, decorata da uno dei più fieri esponenti del nuovo gusto in Francia, Jacques-Émile Ruhlmann: “Solo i ricchissimi possono permettersi ciò che è nuovo e solo loro possono renderlo di moda. Le mode non nascono tra la gente comune. Oltre a soddisfare il desiderio di cambiamento, il vero scopo della moda è ostentare la ricchezza. Che lo si voglia o no, uno stile è solo una mania. E la moda non nasce da umili origini”, ebbe a dire il designer francese a proposito dell’onda che si trovò a cavalcare. A prevalere, però, fu la varietà di stili, dall’architettura modernista (Le Corbusier presentò il suo Esprit Nouveau) al costruttivismo, alle declinazioni nostalgiche. Protagonisti della scena, nei diversi allestimenti proposti dai Paesi partecipanti, i nuovi oggetti della modernità: il mobilio di lusso della Francia – tra forme di recupero del Primo Impero, geometrie cubiste, motivi decorativi esotici, di suggestione asiatica o africana – le creazioni di grande sapienza tecnica, soprattutto per il trattamento dei materiali, dell’Austria, che nel 1922 aveva investito sulla fondazione della Wiener Werkstätte, le invenzioni di alto artigianato artistico dell’Italia, pur indebolita da un contesto economico e politico che non agevolava lo sviluppo e la valorizzazione delle arti decorative, sottolineò Ugo Ojetti nel commentare i limiti della partecipazione italiana a Parigi (l’Italia si presentò, per esempio, senza scuole d’arte industriale, a differenza degli altri Paesi).

L’Italia a Parigi 1925

Eppure, con i suoi artisti, l’Italia trionfa per la capacità di fornire un’interpretazione estremamente personale e raffinata del gusto Art Déco. Nel padiglione nazionale in Cours de la Reine – parallelepipedo in travertino e mattoni dorati firmato da Brasini – sono i vasi in vetro di Vittorio Zecchin per Cappellin Venini & C., gli argenti di Renato Brozzi, le sculture di Adolfo Wildt, i pannelli in ceramica di Galileo Chini e le maioliche di Gio Ponti a conquistare la scena, guadagnandosi tutti l’assegnazione del Grand Prix. La selezione condotta dai consiglieri tecnici Arduino Colasanti, Annibale Galateri e Ardengo Soffici aveva privilegiato chi ritenuto più adatto a rappresentare l’arte nazionale, con l’idea di ammettere solo il nuovo e le interpretazioni moderne (ci sono anche i tappeti di Herta Ottolenghi Wedekind, le sete di Guido Ravasi, i mobili per bambini di Lenci, la produzione orafa di Alfredo Ravasco). Emblema di questa spinta fu il giovanissimo Gio Ponti, che per la manifattura Richard Ginori aveva iniziato a progettare il rinnovo della produzione di maioliche, terraglie e porcellane a partire dal 1922, ispirandosi al Rinascimento come al Manierismo, al repertorio palladiano come al Cubismo e alla pittura contemporanea. Calando il tutto in un’atmosfera onirica, ai confini del metafisico e in anticipazione del Realismo magico, e ironica insieme, senza alcuna rivendicazione nostalgica. Prova ne sono i piatti della serie Le mie donne e il grande orcio intitolato La casa degli efebi.

Un motivo Art Déco
Un motivo Art Déco

Il rilancio dell’industria manifatturiera: Francia e Italia a confronto

Quel che emerge chiaramente, per tutti i Paesi presenti all’Esposizione seppur in misura e modalità diverse, è la fiducia (o la speranza) riposta nel settore manifatturiero: “L’organizzazione stessa dell’Expo è una presa di posizione della Francia per affermare la propria supremazia sul mercato” spiega Terraroli “D’altro canto, dopo la guerra le manifatture industriali hanno bisogno di un rilancio ed è necessario creare posti di lavoro per evitare rivoluzioni. Gli Stati europei profondono investimenti pubblici, anche in Italia ci si spende per teorizzare il sostegno all’artigianato e all’industria nazionale. Questo dà un’opportunità enorme ai creativi, ma c’è bisogno di un mercato largo, che infatti la Francia conquista rivolgendosi al pubblico americano”. Pur tra mille ostacoli – “perché all’epoca la nostra è un’economia debole, abbiamo manifatture straordinarie, ma non un’industria pesante che le sostenga” – però, è l’Italia a profilarsi sulla scena internazionale come modello capace di orientare il gusto più ricercato: “Sono gli albori del Made in Italy, la conquista di una credibilità nel mercato delle cose legata al modo italiano di immaginare il quotidiano, gli oggetti e le forme. Un tesoro che conserviamo ancora oggi”. Del resto, prima di Parigi, lo sforzo di catalizzare il mercato delle arti decorative e al contempo sostenere l’industria manifatturiera italiana si concretizza nell’istituzione della Biennale delle Arti Decorativea opera di Guido Marangoni, critico d’arte e giornalista che fu anche sovrintendente dei musei Civici di Milano e che nel 1928 fondò e diresse le riviste Pagine d’Arte e La Casa bella. Nel 1922, Marangoni (cui si deve anche l’Enciclopedia delle Moderne Arti Decorative italiane, redatta tra il 1925 e il ‘28 in otto volumi) aveva propiziato la nascita dell’Università delle Arti Decorative – inaugurata da Gabriele D’Annunzio, e poi divenuta Istituto Superiore per le Industrie Artistiche – presso la Villa Reale di Monza, “per scuotere l’apatia del Governo davanti a questi problemi fondamentali della cultura artistica, anzi della nostra civiltà nazionale”, scriveva Ojetti, come “centro propulsore di attività volte a dare segno di bellezza alle cose della vita, anche alle più umili”. E nel 1923, sempre alla Villa Reale, si tiene la prima edizione della Biennale, dove accanto a proposte di artigianato artistico regionale già emergono idee innovative improntate al déco, anche a firma di Ponti, fresco di nomina alla direzione artistica della Manifattura di Doccia Richard-Ginori. Nella seconda edizione del ’25, in concomitanza con l’Expo di Parigi, il linguaggio déco sarà dominante, come pure nel ’27, quando viene presentato anche il magnifico Centrotavola delle Ambasciate di Ponti e Tomaso Buzzi – serie voluttuosa di porcellane bianche rifinite in oro – per Richard-Ginori. Nel ’30, ultima edizione monzese prima del trasloco della rassegna in Triennale, l’Art Déco sopravvive a stento, in favore dello stile Novecento. 

Il Déco oltre l’Europa

È l’inizio della fine. In Italia il plasticismo e la monumentalità accompagnano una nuova narrazione che privilegia l’adesione all’ideologia fascista: “Il sistema di vita ideale legittimato fino ad allora non ha più modo di esistere, stanno cambiando la sensibilità e le premesse”. E in tutta Europa l’immaginario che aveva alimentato la produzione Art Déco inizia ad affievolirsi. Oltreoceano, intanto, il New Deal promosso da Roosevelt per superare la crisi finanziaria del 1929 produce l’effetto contrario. Nel 1930 viene inaugurato a New York il Chrysler Building e il linguaggio è indubbiamente quello di un Déco di importazione francese. Seguono l’Empire State Building e molti altri grattacieli, magazzini, cinema, teatri, ville e residenze, che trasformano il volto delle grandi città americane, da Miami a Chicago, anche grazie all’arrivo di maestranze francesi e italiane: “Gli Stati Uniti stabiliscono che una percentuale dell’investimento sulle nuove costruzioni, anche a opera dei privati, debba essere destinato all’abbellimento artistico: è una calamita per gli artigiani e gli artisti che in Europa non riuscivano più a lavorare. Ma il Déco americano è soprattutto un fenomeno di immagine, sebbene molto fascinoso perché nutrito da uno strumento straordinario come il cinema, che a Hollywood mette in scene quello che tutti, anche in Europa, vogliono rivivere con la fantasia mentre si scivola verso la crisi della guerra”. Anche nel resto del mondo questo immaginario si produrrà in progetti notevoli, soprattutto dal punto di vista urbanistico e architettonico. Basti pensare al nucleo di edifici Art Déco di Shangai, diventata una metropoli agli inizi del Novecento, dove il linguaggio decorativo degli Anni Venti viene riletto alla luce di motivi e tradizioni cinesi, pur nell’impianto del sistema codificato in Europa. In esecuzione del Greater Shanghai Plan, che puntava a proiettare Shanghai nel futuro, la città si affida a urbanisti e architetti americani, tedeschi e cinesi: avviato nel 1931, il piano per incarnare “lo spirito della nuova era” si interrompe per lo scoppio della guerra nel 1937. Ma la stessa sensibilità permea le nuove costruzioni di Hong Kong e Mumbai, dove sopravvive uno dei nuclei di edifici Art Déco più ricchi e meglio conservati al mondo, cresciuto tra gli Anni Trenta e Cinquanta lungo Marine Drive. A Manila, nelle Filippine, l’Art Déco arriva negli Anni Trenta sull’onda del colonialismo americano; e al colonialismo, ma italiano, si devono anche le architetture déco di Asmara, in Eritrea (ma l’esecuzione anticipa già le forme e i segni del razionalismo). In Sud America l’influenza si manifesta nei cinema e nei teatri di Buenos Aires, che accoglie anche il grattacielo Edificio Kavanagh, realizzato nel 1936 nello stesso stile. 

Livia Montagnoli

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L’articolo "100 anni di Art Déco. La nostra indagine dentro al gusto di un’epoca " è apparso per la prima volta su Artribune®.

Autore
Artribune

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